La Stampa, 30 maggio 2020
Sulla mostra “Sfida al Barocco”
Spiazzati in mezzo a un mondo definito «il teatro degli stili», disorientati da uno sfarzo a cui i nostri occhi non sono nemmeno più abituati. E drappi e oro e decorazioni dentro «Sfida al Barocco», una delle prime grandi inaugurazioni dopo mesi di musei chiusi.
Alla Reggia di Venaria, negli spazi della Citroniera juvarriana, da oggi e fino al 20 settembre, si possono seguire scie di raffinato virtuosismo. Anche se non è così semplice guardarle in epoca di assoluta austerità. Il contrasto tra gli aggettivi a disposizione nella nostra quotidianità mascherata e quelli che orbitano intorno alle duecento opere arrivate da ogni parte del mondo è quasi violento. Teste che escono dalle gambe del Tavolo console, volumi e luce che invadono il Sacrificio di Ifigenia di Batoni, tutto il voluttuoso eccesso nella Donna che indossa la giarrettiera di Boucher. Una densità di ornamenti da togliere il fiato. In giornate basate sui fondamentali ci si confonde davanti all’ossessivo interesse per il dettaglio e storditi dall’imperativo «fare con meno» diventa quasi difficile concepire il lavoro di chi procedeva per accumulo: imitazione, classici, natura. Vita multipla da catturare nel suo esaltante potere.
La mostra si presenta come una «sfida», si intitola così e in questo modo va vista. Primo la data, non quella scolastica con cui si definisce il barocco, ma una concezione più ristretta: 1680-1750 cioè si parte quando Bernini muore e da lì si viaggia attraverso corti e città in divenire. Si passa da una Roma che resta centrale, anche per chi la rifiuta, a una Parigi che strappa in cerca di vezzosa autonomia alla Torino nel suo momento d’oro: capitale di un regno, riprogrammata da architetti famosi, destinazione di tante idee e quindi fulcro perfetto per la sperimentazione. Inventare alternative, vocazione che mantiene ancora oggi, senza più essere centro e soprattutto senza programmazione.
Dentro le sale che segnano la grandezza di quel periodo si capisce bene perché qui si potevano (e forse ancora si possono) tentare soluzioni azzardate. La più audace sta nell’unico disegno rimasto degli studi per la Cappella della Sindone. Storia di fogli enormi finiti chissà dove, di progetti complessi, strutture che si ripetono fino a occupare ogni pensiero. Solo Guarini poteva tracciare le linee di quella volta, agli altri veniva il mal di testa. Però in questo percorso c’è la voglia di fare delle scelte e pure una strana tenerezza che non viene così automatico associare al barocco. Resta una sfida, alle etichette, alle date, al gusto che non ci somiglia eppure ci chiama in un aspirale di intimità imprevista. Dentro stanze private, tra pizzi, broccati e strati di magnificenza che pesano sulle nostre anime, forzatamente allenate a togliere, c’è come la scoperta, improvvisa, di una strana nota familiare. Lì, perso in quel troppo, c’è un inizio. È una scintilla di modernità perché surfando tra copie e ispirazione qualche cosina iniziavano a levare pure allora.
Il lusso c’è sempre: piace, insiste, preme solo che ha perso l’arroganza. La mostra è un progetto scientifico costruito in anni di ricerca della Fondazione 1563 e intende accompagnare il pubblico in un percorso di cambiamento. Se non è tutto vero quello che luccica vale anche il contrario.
Gli artisti esposti rubavano dai grandi maestri, omaggi rivisitati che hanno spinto i più talentuosi a salti nel tempo: la schiena del Nudo femminile di Subleyras potrebbe essere stata dipinta un secolo dopo e proprio per questo catalizza l’attenzione.
La vedi da lontano. Dribblate le argenterie abbaglianti e i capricci resta il mistero: dall’altra parte del lenzuolo si intravede una storia pronta a svelarsi. Pigiata nel deposito di memoria, esiste una ricchezza da portarsi via, fuori. Non è il barocco, poco in sintonia con l’attualità, è la sua sfida che continua tra pregiudizi e diffidenze per quel troppo tanto distante in cui si nasconde una goduria. Appaga il bisogno di superfluo così a lungo trascurato.