Sette, 29 maggio 2020
Intervista a Philippe Starck
Non fosse stato per le notizie terribili scandite ogni giorno da giornali e tv, Philippe Starck del lockdown non avrebbe nemmeno avuto percezione. «Ho speso una vita per costruire il mio territorio parallelo, lontano da questa società», ci racconta, dalla sua casa tutta di vetro «nel mezzo del nulla» (come la definisce), dove ha trascorso l’isolamento con la moglie, la figlia e la suocera. «Guardo fuori e vedo alberi dappertutto, sono a contatto con sole, pioggia e cielo. Una dimensione perfetta. In realtà, io da sempre vivo e lavoro isolato: nella mia camera la scrivania era già a distanza di oltre un metro dal letto … Niente di diverso, nemmeno le idee. Intende idee creative o riflessioni? Entrambe. Inizio a creare prestissimo e proseguo fino quasi a sera, poi stacco e faccio un lungo giro in bicicletta nella foresta. Devo dire che, compatibilmente con ciò che è successo, non ho avuto ripercussioni sul mio stato d’animo, perché sono abituato a vivere l’hic et nunc. Invece è cambiata la mia percezione dei viaggi. Prima, per il mio lavoro, ero costretto a farli. Ma sentivo che non era la cosa giusta, e ora ho capito che spostarsi troppo frammenta la vita e interrompe il filo del pensiero. Quindi fa male. Se non fosse per l’evento tristissimo che l’ha provocato, potrei dire che il mio lockdown ha avuto un effetto positivo. Di “recupero” interiore».
Parliamo del “dopo”: lei come se lo immagina?
«Impossibile dirlo ora. Tutto il pensiero occidentale era concorde sulla necessità di un cambio in una direzione più umana ed ecologista. Ora abbiamo toccato con mano che l’universo è uno e dobbiamo rispettarlo. Il Covid è stato solo un acceleratore. Però uno dei più grandi talenti umani è la capacità di adattarsi e dimenticare, ma ora questo mi preoccupa perché invece dovremo ricordare questa lezione. Per quanto mi riguarda, sono uguale a prima: ero un ecologista ante litteram, e ho ancora gli stessi sogni. Da sempre sostengo che la soluzione “eco” sarà la decrescita: occorre ridurre tutto il possibile e arriveremo a consumare meno. Lo stiamo già facendo».
D’accordo, ma come si concilia questa necessità con il suo ruolo di creatore di oggetti?
«Nessuno ha mai affermato che il design obblighi a produrre. Il design dà un servizio, soddisfa un bisogno. E considerando che nel mondo futuro scomparirà la materialità, il nostro obbligo come designer è dare risposte a prescindere dagli oggetti. Si spieghi meglio. Guardiamo ai grandi designer come Achille Castiglioni ed Enzo Mari: erano già degli ecologisti. Castiglioni usava meno materia possibile, Enzo Mari progettava con il ready made. Ma poi, con Alchimia, Ettore Sottsass e Alessandro Mendini hanno creato un movimento estetico-intellettuale meraviglioso, ma totalmente cinico. Un loro divertissement. Si erano completamente dimenticati della funzione. Questo ha contribuito a generare l’idea che il design sia simile alla moda. Invece non è così. Per cui negli ultimi 20 anni non c’è più stato un “buon design”. Ma ora siamo obbligati a tornare all’onestà, anche perché a breve avremo una generazione nativa ecologista e questa idea del design trendy non potrà più esistere».
Ma lei ha creato tanti mobili in plastica di grande successo…
«E’ vero. Una volta si parlava poco di questi temi. Quando ero un ragazzo incontrai il primo ecologista che mi illuminò. Ho profuso energie nel cercare materiali che rispettassero il principio di non danneggiare la natura, decidendo alla fine di usare la plastica: mi sembrava un buon modo di salvaguardare le foreste!. Però nel mondo del design in questo momento si parla molto di materiali alternativi che potrebbero sostituirla».
Come la vede?
«Ovviamente sono in prima linea nella ricerca di materiali “eco”, ma attualmente tra tutte le bioplastiche esistenti non ne conosco una che sia stata testata sufficientemente. E va considerato un ulteriore aspetto. La plastica ricavata dal mais è stata la prima uscita sul mercato, ma a breve ci saranno milioni di persone che moriranno per mancanza di cibo, per cui mi sono chiesto: dovrei fare una sedia con un alimento che potrebbe sfamarle? Mi sono risposto “no”. Sono in corso anche altre sperimentazioni, per esempio sulla plastica ricavata dalle alghe: le aziende ci stanno investendo ma sono ancora lontane. Per ora possiamo realizzare dei piccoli oggetti, non dei mobili. Intanto, finché non sarà sostituibile da quella organica, io continuerò a usare la plastica tradizionale. Perché è ancora la miglior soluzione possibile. Purtroppo qui la confusione è stata creata dai media: una sedia in plastica può durare 50 anni ed è un oggetto che tutti si possono permettere».
Il dibattito oggi è anche su come rendere più sostenibili i processi produttivi. E, come diceva lei poco fa, tornare a produrre usando il minor quantitativo di materiali possibile.
«In realtà su questo io sto già lavorando da tempo. Produrre con il minimo utilizzo di energia e il minimo di materiale, è ecologicamente fantastico. Prendiamo per esempio l’ultima serie di mobili da esterni che ho progettato, Fenc-e Nature, per Cassina: ho voluto usare materiali onesti, in armonia con la natura. Alluminio per le parti dure, il legno per il bracciolo-tavolino e lo schienale basico con due sole posizioni: un tronco e due fori, due chiodi ed eccolo. Alla fine l’insieme ha una eleganza semplice, perché la natura ci dimostra che si può vivere con il minimo possibile, ed avere comunque il massimo del comfort. E guardando il divano finito, ho capito che l’avevo già realizzato identico tanto tempo fa. Allora vivevo a Formentera, sulla spiaggia: per inventarmi un divano presi un pezzo di legno qualunque e ricavai il bracciolo, trovai delle alghe e le intrecciai. Insomma, pezzo per pezzo, creai la stessa seduta. E quando anni dopo tornai là, in quella casa, il sofà c’era ancora. Perché quando un oggetto è fatto in modo sincero, nel rispetto dell’intelligenza della natura, dura più a lungo. Anche la durata fa parte della sua idea di “sostenibilità”… Sì, la longevità tornerà ad essere il miglior paradigma. Finora abbiamo vissuto in una società usa e getta ma ormai è impossibile proseguire così. Una volta parlare di “heritage” suonava obsoleto: se compravi un vestito e volevi seguire la moda, diventavi subito superato. Oggi quell’abito è per te, tua figlia e sua figlia: qualcosa da tramandare, secondo il nuovo concetto di modernità. Saremo davvero “eco” se smetteremo di essere consumisti».
Oggi più che mai si torna a parlare di autenticità e radici culturali come valori imprescindibili, in contraltare a un mondo che non ha più confini. Non pensa che la globalizzazione abbia fatto un po’ di danni al nostro stile di vita e agli “oggetti”?
« E’ una modalità normale confrontarsi prima con il nostro vicino, per poi arrivare al mondo intero, e questo ha effetti buoni e cattivi. Il problema non è la globalizzazione ma le grandi multinazionali, e le compagnie come Amazon o Google. Sono loro il vero pericolo. Il punto è che se acquisti qualcosa, lo devi fare con criterio: non bisogna comprare cose di cattiva qualità fatte in Cina perché sono più economiche, ma si deve accettare che abbiano il prezzo giusto. Quando acquisti una t-shirt a 5 euro sai benissimo che non è “onesta”, perché c’è stato bisogno di schiavi per produrla a quel prezzo. Io voglio pagare il giusto, da una azienda che non usa schiavi (ricordiamoci sempre che nel mondo ce sono 27 milioni). Solo in questo modo si rispetta l’umanità».
Ma dopo aver vissuto le nostre case così intensamente, non avremo voglia di modificarle?
«Non credo a questa ipotesi. Perché se la pandemia continuasse, sarebbe un disastro epocale e forse useremmo casa e risparmi per mantenerci. Se invece si fermasse, rimarrebbe tutto uguale, casa inclusa. Ma anche ipotizzando un altro Covid, magari tra anni, perché cambiare qualcosa ora? Io credo che se abitavamo in un loft o in un appartamento, continueremo a vivere nello stesso modo. Ecco, gli esterni in questa occasione sono stati valorizzati ancora di più. Ma sono spazi vitali: non è un tema di pandemia, ma di salute«.
Quindi riguardo gli oggetti, nessuna nuova tipologia o utilizzo?
«Ribadisco: se la pandemia proseguisse, ci sarebbe una sorta di fine del mondo, e probabilmente avremmo bisogno di mascherine ma non di cambiare il design di una sedia».
Lei ha realizzato hotel e ristoranti di successo: dopo il Covid-19 ha pensato come fare per continuare a renderli attraenti?
«Con la pandemia in atto, per hotel e ristoranti non vedo un futuro. Non basta modificare gli spazi per dare alle persone la certezza di non morire. Pensiamo davvero che mettendo barriere e metri tra i tavoli, un ristorante rimanga invitante? Io non credo».
Prima si parlava solo di condivisione, oggi solo di distanziamento…
«E’ vero, ma è un concetto legato al Covid. Di sicuro torneremo alla condivisione. Che anzi per reazione poi aumenterà».
Succederà anche per i consumi legati agli oggetti e la moda?
«Intanto questa parola orrenda, scandalosa, “consumo”, sparirà. Acquisteremo in modo diverso. Lo stesso fashion business cambierà. Sopravviverà, come il design, perché entrambi sono fatti da persone fantastiche, imprese, artigiani e manager unici, ma dovranno ragionare su un contesto completamente diverso. Ed essere geniali nel riuscire a trovare l’equazione perfetta tra la crescita e consumare meno».
Lei progetta molti mezzi di trasporto, dallo yacht alla bicicletta. Come pensa cambierà il modo di viaggiare?
«Ho sempre sostenuto che il turismo frenetico sarebbe stato un fenomeno a termine. Ora non ci sarà più nessuno che vorrà passare 20 ore in aereo, rischiando di ammalarsi. O andare in capo al mondo per trovare gli stessi negozi e ristoranti. Penso che il turismo di domani sarà vicino a casa: ci si muoverà in bicicletta, treno, auto ma a poca distanza. Io stesso, quando sono in vacanza, mi sposto sempre nel raggio di 50 km con una vettura elettrica. Ovviamente i viaggi business rimarranno, ma solo quelli indispensabili, con aerei e dotazioni speciali. Ecco, di sicuro nasceranno luoghi eccezionali, per pochi».
Per esempio?
«Per chi potrà permetterselo, delle “località galleggianti”, in Patagonia e luoghi simili, lontano da tutti. L’alternativa saranno le grandi imbarcazioni, usate come isole personali, modificate dal design per adeguarsi alla lentezza di questi soggiorni lunghissimi, per pochi e nel massimo comfort».
Rispetto, onestà: sono parole che lei usa spesso. Da padre, quali altri insegnamenti trasmette a sua figlia?
«Per prima cosa che “creare” è la cosa più bella che ci sia, come mi ha trasmesso mio padre che era un ingegnere e costruttore aeronautico: direi che è un dovere di famiglia. Dopo di che le insegno (anzi, passa per osmosi…) i valori veri: al primo posto l’onestà, e poi l’altruismo, e il lavoro. E che non serve sforzarsi di trovare la felicità, perché noi non siamo qui per questo ma per partecipare a un’evoluzione. Tutto qui. Poi, di impegnarsi a governare la concentrazione, a capire la musica, a osservare e comprendere quello che vede. Mi sembra già molto per una bambina di 8 anni! Ma anche agli altri miei figli ho passato questi stessi concetti e mi pare abbia funzionato».
Come designer lei ha creato di tutto. Quali progetti oggi si può permettere di rifiutare?
«Quando ho aperto il mio studio, più di 30 anni fa, ho stilato una Carta: non lavoro per chi produce armi, petrolio, superalcolici, tabacco, giochi d’azzardo e per chi fa proventi dal lavoro nero. Me lo chiedono spesso ma continuo a dire di no. Non solo perché ritengo che queste società siano quasi sempre avide e non oneste, ma perché voglio mettere il mio lavoro al servizio delle persone. Di quelli a cui voglio bene, con i quali condivido i valori. Ho la mia età e non voglio rinunciarci».
E ora, che cosa sta progettando?
«Un nuovo concetto di clinica, che sorgerà a Parigi. Si chiama Villa M, sarà una “casa” per la salute, che risponderà alle nostre nuove esigenze di benessere. Anche interiore».