Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  maggio 29 Venerdì calendario

Intervista a Thomas Piketty

Il 12 settembre 2019, quando il nuovo tomo Capitale e ideologia è uscito in Francia, sulle prime pagine dei giornali accanto al volto del suo autore Thomas Piketty c’erano i cortei contro Macron e il piano di riforma delle pensioni, gli Europei di pallavolo, l’ultimo discorso di Mario Draghi alla Bce, Greta Thunberg in barca a vela nell’Atlantico verso la tribuna dell’Onu a New York e - attenzione - lo sciopero di medici e infermieri contro i tagli al servizio sanitario. Sono passati solo pochi mesi. Sembrano secoli, come si dice, e Capitale e ideologia esce adesso in Italia (La Nave di Teseo) in un mondo irriconoscibile. Eppure la denuncia di Piketty - le diseguaglianze dipendono da una scelta perversa della politica, non sono un prodotto ineluttabile dell’economia - sembra ancora più attuale. In un’intervista a 7 via FaceTime il celebre ricercatore della EHESS di Parigi, star planetaria dopo avere venduto sei milioni di copie del libro precedente Il capitale nel XXI secolo , spiega perché anche la nuova realtà sembra dargli ragione.
Thomas Piketty, che cosa pensa dello stato del mondo ai tempi del Covid?
«Mi sembra che l’opportunità del mio approccio sia confermata. La crisi del coronavirus ha fatto emergere in modo ancora più evidente la violenza delle diseguaglianze, che esisteva anche prima ma si è approfondita. Di fronte alla malattia, siamo ancora più diseguali, c’è un problema di accesso alle cure, di tagli al sistema sanitario».
E il confinamento?
«La quarantena ha mostrato diseguaglianze estreme. Siamo stati chiamati a restare tutti in casa, ma molti una casa non ce l’hanno e sono rimasti per strada come sempre, altri hanno trascorso due mesi prigionieri di appartamenti microscopici, altri ancora hanno goduto delle loro grandi case con giardino. L’epidemia ha amplificato e messo ancora più sotto gli occhi di tutti problemi che esistevano già. Il nostro sistema economico va cambiato, non è mai stato così chiaro come adesso».
Da dove comincerebbe?
«Dal sistema sanitario pubblico. In Francia, ma credo anche in Italia, siamo tutti sotto choc per la mancanza di letti a sufficienza, di mascherine, di tamponi, di ventilatori».
Si potrebbe obiettare che la pandemia è un evento eccezionale, che ha sconvolto la routine dei servizi sanitari.
«Sì, ma il sistema pubblico veniva da decenni di tagli, era fortemente indebolito e infatti medici e infermieri francesi protestavano e scioperavano già a settembre, mesi prima che le notizie del virus arrivassero da Wuhan. L’epidemia ha dato loro ancora più ragione».
Che cosa, secondo lei, potrebbe succedere adesso?
«Dovremmo tornare a investire nel pubblico, nell’educazione, nelle pensioni, e in particolare nella sanità. I bisogni della sanità provocati dall’epidemia potrebbero portare a cambiamenti politici e ideologici più profondi. Penso, per esempio, alle istituzioni europee. È il momento di passare allo stadio superiore, a pensare al debito pubblico della zona euro e a mettere in comune i tassi di interesse».
Un’ipotesi contro la quale fa barriera la Corte costituzionale tedesca, le toghe di Karlsruhe.
«La sentenza del 5 maggio mi ha molto rattristato. Ma non mi sorprende, sono giudici estremamente conservatori e faziosi. La loro ignoranza storica è enorme, pensano che la Banca centrale europea avrebbe dovuto lasciare le banche fallire una dopo l’altra dopo la crisi del 2008. Ovvero ciò che accadde negli anni Trenta, con le conseguenze che sappiamo, quando le banche centrali non erano intervenute. Ma nella sentenza di Karlsruhe c’è un elemento positivo».
Quale?
«I giudici tedeschi almeno hanno spinto il governo di Berlino a prendere posizione, a chiarire che cosa vuole fare».
E Angela Merkel, con l’Iniziativa franco-tedesca, ha rotto il tabù della messa in comune del debito.
«Finalmente. In questo modo la palla è adesso nel campo dei governi dei quattro più grandi Paesi dell’Unione Europea: Germania, Francia, Italia, Spagna».
Che appoggiano la proposta Merkel-Macron, ma si scontrano con il no dei Paesi del Nord.
«Credo sia veramente grave ciò che alcuni politici del Nord Europa, in particolare nei Paesi Bassi, insinuano: sostanzialmente vogliamo rubare i loro soldi, ci trattano da fannulloni, quando poi il loro Paese si comporta come un paradiso fiscale».
I Paesi Bassi non sono gli unici a frenare, si trovano d’accordo con Austria, Danimarca e Svezia, che hanno trovato nel cancelliere austriaco Sebastian Kurz il loro portavoce.
«Pazienza, a questo punto non possiamo più aspettare. Dobbiamo agire, senza attendere un’unanimità che non arriverà mai. I Paesi che sono pronti ad avanzare sulla strada della messa in comune dei tassi d’interesse possono e devono muoversi da soli. Gli altri, se vogliono, si uniranno in seguito».
Che cosa dovrebbero fare, concretamente, Berlino, Parigi, Roma e Madrid?
«Un nuovo trattato a quattro. Altrimenti rischiano di restare sempre immobili, con l’alibi di essere ostacolati da qualcuno. Prima la grande scusa era la Gran Bretagna, adesso che è uscita ci sono i Paesi del Nord. Invece è il momento di superare la regola dell’unanimità e del diritto di veto su questioni così vitali. Non possiamo aspettare di convincere i Paesi Bassi o il Lussemburgo. Andiamo avanti senza di loro, poi vedremo».
Lei denuncia da sempre il deficit di democrazia delle istituzioni europee. Che legittimità democratica avrebbe un trattato ridotto? «Potremmo sviluppare l’idea, ottima, dell’assemblea francotedesca creata due anni fa con il Trattato dell’Eliseo tra Francia e Germania. È un’assemblea comune con un centinaio di deputati, per adesso puramente consultiva, ma potremmo allargarne le competenze e estenderla a rappresentanti di Italia e Spagna».
Il presidente francese Macron in passato ha spesso evocato la possibilità di un’Europa dei centri concentrici, a più livelli o velocità, dove alcuni Paesi si mettono d’accordo e avanzano su temi specifici.
«È arrivato il momento. E penso che il governo italiano abbia un ruolo centrale in questo. Roma potrebbe sostenere le proposte del premier spagnolo Pedro Sánchez, che io trovo molto interessanti: per esempio l’idea di un debito perpetuo o a lunghissimo termine, magari cinquant’anni, di 1.000 o 1.500 miliardi, messo sul bilancio della Banca centrale europea. Ricordiamo che il bilancio della Bce tra il 2008 e il 2018 è passato da 1.000 a oltre 4.500 miliardi, cioè è passato dal 10 per cento al 40 per cento del Pil della zona euro, e questo per salvare le banche da una crisi finanziaria che avevano esse stesse contribuito a provocare».
Nelle sue opere lei sostiene che le due guerre mondiali nel XX secolo hanno avuto l’effetto collaterale di ridurre in parte le diseguaglianze. È lo stesso ruolo che potrebbe avere adesso il virus Covid-19, un evento eccezionale capace di provocare una risposta straordinaria dei governi? «Non ci dovremmo affidare a guerre mondiali o epidemie per risolvere i problemi. Gli eventi eccezionali possono avere molti sbocchi possibili: in passato abbiamo avuto la nascita del Welfare State, ma anche l’ascesa del fascismo. Non so che cosa accadrà adesso, la crisi potrebbe anche andare a vantaggio dei populisti come Marine Le Pen in Francia o Matteo Salvini in Italia. Ma il nazionalismo è un veleno che circola anche in certi partiti di centrosinistra o di centrodestra nel Nord d’Europa, quelli che accusano gli europei del Sud di volere approfittare di loro».
Chi vincerà?
«La mia speranza è che gli elettori, vista la gravità dell’epidemia, non abbiano voglia di affidare il potere a clown pericolosi come Donald Trump o Jair Bolsonaro. Ma niente è scritto in anticipo. Uno dei messaggi che reputo importanti del mio libro è che le questioni economiche e finanziarie appartengono a tutti, non sono temi tecnici riservati agli specialisti. Il futuro dipende da tutti noi».
Dopo decenni di retorica dell’eccellenza, nel suo libro lei non è tenero con la meritocrazia.
«Il problema è che l’ideologia della meritocrazia è spesso abbracciata dai vincenti del sistema educativo per dare ai perdenti la colpa dei loro insuccessi: avreste dovuto impegnarvi di più, essere più meritevoli, più diligenti, più bravi. Se la sinistra si è così staccata dalle classi popolari, negli ultimi 50 anni, è proprio perché è diventata il partito dei diplomati e ha abbandonato i meno privilegiati. Ma la meritocrazia, nelle condizioni attuali, è una gara falsata perché le condizioni di partenza non sono le stesse. Dobbiamo tornare a investire nella scuola, nell’università, nell’educazione pubblica, e permettere davvero al maggior numero di allievi di studiare e di formarsi in modo efficace. Poi potremo riparlare di meritocrazia».