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 2020  maggio 29 Venerdì calendario

L’autobiografia di Ottavio Bianchi

Gli occhi – celesti – di ghiaccio, capello biondo da uomo del nord (bresciano di nascita, bergamasco d’adozione), rari abbracci già prima del Coronavirus, parla pochissimo, ed esce ancor più di rado, «se non per andare a giocare a golf». Questo l’identikit di Ottavio Bianchi, secondo la vulgata, il mister più silente uscito dal rumoroso chiacchiericcio del calcio italico degli ultimi cinquant’anni. Ma il ritratto del 76enne ex allenatore di lungo corso, ora viene parzialmente rovesciato nel libro autobiografico che ha scritto assieme alla figlia, Camilla Bianchi (collega giornalista dell’Eco di Bergamo). Un album di famiglia, con «confessionale» Sopra il vulcano. Il campo, lo scudetto, la vita (Baldini+Castoldi. Pagine 147. Euro 16,00), titolo che a sua volta gioca in rovesciata sul capolavoro di Malcolm Lowry, Sotto il vulcano.
Ma Bianchi è quanto di più distante da Geoffrey Firmin, il protagonista del romanzo di Lowry, il console d’Inghilterra prigioniero dell’alcol e condannato al girone dantesco della città messicana di Quauhnahuac. Ecco, unica affinità tra l’Ottavio, uomo di calcio itinerante e il tragico diplomatico inglese: aver vissuto ciascuno il proprio Messico. Per Bianchi è stato il Messico napoletano di Peppe Lanzetta. Napoli, mai stata un carta sporca per lui, ma la città della gioia e dei sogni di cuoio realizzati. Lì dove il mare luccica, ha compiuto il grande salto da calciatore (arrivando dal Brescia nel ’66) e poi è tornato nel quadriennio memorabile (1985-’89) per compiere un miracolo calcistico: l’operazione san Gennaro del primo storico scudetto sotto il Vesuvio, stagione di grazia 1986-’87. Ma prima dell’apoteosi tricolore, c’è da leggere e comprendere il cammino di quest’uomo verticalissimo, nato fantasista («ero un numero 10 naturale») e adattatosi a una vita da mediano, ma con il vizio del gol (6-8 a stagione in Serie A). Uno dei pochi vizi rintracciabili nella sua storia umana e sportiva, che ha accettato di scrivere solo per amore di padre verso Camilla. «E comunque quando il libro era praticamente finito, mi ha chiesto se lo facevamo uscire postumo», sorride la sua biografa. Ma a quel punto papà Ottavio non poteva rimangiarsi la promessa ed evitare il viale delle rimembranze, così come ha sempre fatto con certi appuntamenti mediatici, per non parlare del supplizio delle interviste che ha sapientemente dribblato. «Credo siano state più le interviste negate, una persino a Enzo Biagi, di quelle concesse – racconta Camilla Bianchi –. Ha centellinato apparizioni televisive e gentilmente rifiutato tutti gli inviti a fare racconti su Maradona. Il regista Asif Kapadia, già autore di premiati documentari su Senna e Amy Winehouse, l’ha inseguito invano per due anni per ottenere un’intervista da inserire nel film Diego Maradona presentato a Cannes». Gianni Mura che, ha scritto il suo canto del cigno con la prefazione di Sopra il vulcano, annotava a margine dell’intervista “strappata” a Bianchi nel ritiro pre-campionato del Napoli in Trentino: «Al confronto parlare con Thoeni è stata una “zingarata”, e la Canins una discesa fiorita». Ma alla fine dell’incontro, mastro Mura ne ricava la sensazione di un uomo «freddo e pulito, come se gli fosse nevicato dentro». È il candore di Bianchi. Mister ghiaccio bollente che nel suo essere «disponibile e arroccato» sarebbe «andato molto lontano». Il successo degli innocenti, come Dino Zoff, suo giovane compagno di squadra al Napoli e campione del mondo, a 40 anni, al Mundial di Spagna ’82. «Il rispetto dei ruoli» è il principio cardine dell’Ottavio volante, appreso da bambino in famiglia e consolidato poi nella «scuola danubiana» di Karl Neschy, il suo primo maestro di campo al Brescia. La “prospettiva Neschy” è quella che a “Bottecchia” (il grande Ottavio del ciclismo anni ’20), come lo chiamavano da giovane promessa (debutta in B a 17 anni), gli cambia l’orizzonte. A cominciare dall’alimentazione: «Neschy diceva che avevamo bisogno di mangiare. Eravamo figli della guerra, non aveva tutti i torti. Prima di conoscerlo io al ristorante non c’ero mai stato, la sera cenavo a pane e latte». Era il tempo delle vacche magre e del calcio per la strada o negli oratori, dalla mattina alla sera, con i tornei bresciani «a cinque» (l’antesignano del calcetto) vinti sempre dalle formazioni degli orfani di guerra. «Ragazzini gracili che passavano gran parte delle loro giornate a giocare a calcio nel campetto del collegio», ricorda Bianchi che, invece con mister Neschy, era passato ai tre allenamenti settimanali e poi con Renato Gei, «l’uomo che mi aveva trasformato in un mediano che segna», avrebbe respirato quell’aria di canfora degli spogliatoi che contano. Canfora per oliare muscoli e le rotelle della mente di centrocampo. L’affinamento tecnico del futuro allenatore, Bianchi lo ha trovato nella creatività del “Petisso” Pesaola a Napoli e poi a fine carriera nel Milan del “Paròn”. «Intelligente, ironico, fine psicologo. Saper leggere nella mente dei calciatori era una gran dote di Nereo Rocco». Più del gioco all’italiana (brevettato da Rocco e Gipo Viani) e dell’allergia ai tatticismi, dal “Paròn” ha imparato a gestire le menti viziate e a volte infantili dei calciatori che per tutta la vita inseguono un pallone, proprio come i bambini.
Ci sono quelli che non crescono mai e quelli invece come Bianchi che lo fanno anche troppo in fretta, e capiscono presto che in fondo quel pallone che fa palpitare il mondo intero è soltanto un gioco. Un gioco che per lui si fece mestiere e faccenda seria a Brescia, specie quando decise di andare via per un ingaggio adeguato al suo talento. Temerario, lui e la sua famiglia rischiarono il linciaggio dei tifosi bresciani, ma fuggì. Dalla nebbia in Val Padana al mare chiaro di Napoli. Puntualissimo, anzi in anticipo di mezz’ora, come sempre, si presentò per la firma dal “Comandante”, il padre patron Achille Lauro che testò subito il ragazzo dicendogli che gli era «costato caro assai» portarlo sotto il Vulcano. Ma l’Ottavio con personalità già spiccata ribatteva: «Mi avete dato quello che merito». In campo si meritò il rispetto e l’amicizia di due fuoriclasse in competizione: l’argentino Omar Sivori, prefigurazione di Maradona e il suo rivale brasiliano, il galbèder («in bresciano: uccello che saltella come un grillo») Josè Altafini. Con loro in campo ha sfiorato il sogno tricolore che poi il «sindacalista», come lo aveva ribattezzato il nuovo presidente Corrado Ferlaino (per aver preteso i premi partita per tutta la squadra), tornò ad afferrare con il Napoli di “El Diego”, e di Ferlaino. Un’impresa che lo “storicista” Diego Trio spiegava così in una lettera a Gianni Brera: «Se il Napoli dovesse diventare campione d’Italia, significherebbe che parte rilevante del nostro popolo è riuscita a sconfiggere la rassegnazione, è stata in grado di ribaltare una condizione, soprattutto emotiva, di sudditanza». Un riscatto contro il monopolio delle blasonate del Nord e la risposta a quel razzismo territoriale dilagante negli anni ’80 che voleva il Napoli «campione del nordafrica». La mente comica e geniale di Massimo Troisi, stuzzicato sette giorni dopo la conquista dello scudetto da Gianni Minà, rispediva al mittente: «Meglio essere campioni del nordafrica che fare striscioni da sudafrica». Erano gli anni di fuoco dell’Apartheid sudafricana. Era de maggio, il 10 (dell’87) quel giorno che Napoli si cucì lo scudetto sul petto. Al fischio finale di Napoli-Fiorentina “Bisteccone” Galeazzi rapì Diego Maradona per un’intervista in esclusiva mondiale nello sgabuzzino del del San Paolo. Sazio e appagato, Galeazzi tentò identico blitz, a mo’ di energiche strattonate da peso massimo, con il leggerissimo Bianchi che con algida cortesia proferì al microfono di Rai 1: «Abbiamo fatto un buon lavoro, Sono soddisfatto». Stop. Non disse abbiamo vinto. Invece, aveva vinto contro tutto e tutti, con la testa e con il cuore Bianchi aveva acceso e spento il vulcano a suo piacimento. Con i cornetti e le scaramanzie partenopee alla Benedetto Croce, «non è vero ma ci credo», aveva esorcizzato i poteri forti e gli intrighi di Palazzo. Con il giochino dei palleggi con un limone nel prepartita aveva sfidato e battuto Maradona («una sola volta, poi non c’ho riprovato») che da quel momento gli sarebbe stato sempre fedele. Un po’ meno i De Napoli, uno dei tanti giovani che aveva lanciato all’Avellino (così come al Como che considera il suo vero capolavoro da allenatore) o i Garella che capeggiarono il clan degli “ammutinati” prima della finale Uefa dell’89. Ma in silenzio, Bianchi quella notte alza la Coppa e torna a Bergamo alta, da sua moglie Maria Mercede che lo ha sempre assecondato nel suo impegno per il calcio «perché alla nostra famiglia – ripeteva la mamma –, ha dato il pane e il companatico». Maria Mercede tre anni fa è volata via... Resta l’amore di Camilla la «giornalista» che fece temere a papà Ottavio: «Adesso ci manca solo che tuo fratello Tommaso faccia l’arbitro». Pericolo scongiurato. Ha vinto ancora Bianchi che è rimasto nel cuore di tutti, specie dei napoletani come il Comandante di superpetroliere di Portici che ha appena rintracciato al telefono Camilla: «Dica a suo padre che io ero sbarcato apposta quella domenica degli “ammu-tinati”, ed ero tra i 90mila del San Paolo che in coro urlavamo “Ottavio Bianchi, Ottavio Bianchi”! Non lo dimenticherò mai...».