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 2020  maggio 28 Giovedì calendario

Teheran, una Borsa da record

Difficile crederci, soprattutto in tempi di pandemia mondiale, eppure è così. La performance del Teheran Stock Exchange (Tse) suona come un paradosso. Che segue, ormai da diversi anni, una “regola” paradossale: più l’economia nazionale affonda sotto i colpi delle sanzioni americane, più i titoli si rafforzano. Più i venti di guerra spirano contro la Repubblica islamica nemica degli Stati Uniti(come nei giorni successivi all’assassinio del generale Soleimani) e più il Tedpix, l’indice benchmark del Tse, schizza su valori mai visti prima. Più il prezzo del barile cade, più gli scambi si galvanizzano. La sua corsa non rallenta nemmeno davanti alla più grave pandemia dell’ultimo secolo. Anzi,al contrario, accelera. Quest’anno come mai nessun’altra piazza ha saputo fare in tutto il mondo. 

Difficile crederci. Perchè l’Iran è stato in principio il terzo Paese epicentro della pandemia, e resta comunque tra i primi 11 al mondo, con oltre 141mila contagi ufficiali da Covid-19 (quelli reali sarebbero molti di più). E perché il prezzo del barile di greggio, la principale fonte di entrate per Teheran, terzo produttore dell’Opec, è crollato a 20 dollari. 

Era il 19 febbraio, quando è stato scoperto il primo caso di contagio da coronavirus. Tre mesi dopo, mentre le maggiori Borse mondiali continuavano a bruciare miliardi di dollari, l’indice principale del Tse è più che raddoppiato (+113%). Il 9 maggio ha perfino sfondato la soglia del milione di punti. È un’anomalia che dura da oltre 10 anni.In quello appena concluso, quando la recessione ha sfiorato l’8 per cento, il Tse ha mostrato una crescita del 225 per cento. 

Fondato nel 1967, quando lo scià Mohammad Reza Pahlavi portava avanti con caparbia il suo grande progetto di industrializzazione del Paese, questa Borsa oggi include mille compagnie, tra cui aziende automobilistiche, acciaierie, alimentari. La capitalizzazione è più che raddoppiata rispetto a sei anni fa, e quintuplicata dal 2006, e oggi supera i 200 miliardi di dollari.

Ma cosa c’è dietro questa corsa? Cosa si nasconde dietro questo paradosso? 

Il balzo del 9 maggio è stato motivato soprattutto dagli annunci del Governo di voler vender le sue quote per due miliardi di dollari in modo da raccogliere i fondi necessari alla lotta contro il coronavirus e al sostegno delle fasce più povere. Così, anche per evitare una nuova ondata di malcontento popolare, come quella esplosa lo scorso novembre (le vittime della repressione furono 500 in pochi giorni), le autorità di Teheran hanno ideato un piano di “privatizzazioni”; permettere a 49 milioni di iraniani, quelli sotto un certo reddito,di acquistare quelle che sono state definite “Justice shares” (azioni della giustizia), ovvero titoli di compagnie statali venduti a prezzi molto scontati. Il valore complessivo delle azioni della giustizia si aggira sui 19 miliardi di dollari ai prezzi attuali del mercato libero. Dovrebbe avvenire in più fasi. Chi le possiede da tempo ha incassato i dividendi poche volte. In verità l’idea non è nuova. Lo aveva già fatto nel 2006, con un successo tutto da verificare,l’allora presidente della Repubblica che tanto piaceva alle masse, il falco Mahmoud Ahmadinejad.

Al di là delle recenti operazioni del Governo, le ragioni dietro questa bolla che non scoppia sono comunque molteplici. Innanzitutto l’Iran è un grande Paese, quasi 90 milioni di consumatori, una classe media importante, un’istruzione tra la più alte della regione. Tra gli esportatori di greggio del Medio Oriente è forse l’economia più diversificata insieme agli Emirati Arabi. Al di là degli idrocarburi, settore comunque trainante, possiede una vera industria. La quale ha beneficiato dell’effetto sanzioni, e dall’isolamento economico che ne è seguito. E questo non è un paradosso.

La linea della massima pressione adottata da Donald Trump è stata una panacea per quelle compagnie iraniane che si sono ritrovate senza agguerriti concorrenti stranieri. Che hanno potuto proteggersi contro la galoppante svalutazione ed esportare nei Paesi vicini vendendo in dollari ciò che producevano in rial (prima dello scoppio della pandemia gli scambi commerciali con i Paesi della regione erano attivi). Non è vero che a Teheran manchino le merci, semplicemente quelle esposte nei centri commerciali o nei bazaar sono quasi tutte “made in Iran”. O comunque assemblate con pezzi acquistati all’estero, sovente di contrabbando: dalle smaccate imitazioni di scarpe occidentali ai vestiti, passando per le bevande e gli alimenti, fino agli elettrodomestici, le compagnie iraniane si sono trovate regine di un mercato comunque importante. 

Un altro elemento non meno importante ha contribuito alla corsa del Tse. «I vertici dei Guardiani della rivoluzione (una costola del regime, Ndr) - ci spiegava alcuni anni fa Meir Javendafar, ebreo di origine iraniana e direttore del Meepas, società di consulenza e analisi sul Medio Oriente - hanno acquistato massicce partecipazioni in compagnie statali privatizzate. Mantengono i prezzi alti, spesso grazie a grandi prestiti dal settore pubblico. Un meccanismo artificiale con il benestare del regime, che vuole tenerseli buoni».

A tutto ciò si aggiunga il fattore beni rifugio. Molti iraniani, spaventati dall’inflazione galoppante e dal taglio dei tassi di interesse (dimezzati in poche settimane) hanno dirottato i loro depositi sul Tse. D’altronde in alcuni periodi la redditività sfiorava il 5% al giorno.Insomma hanno considerato questa anomala Borsa alla stregua di un bene rifugio, quasi si trattasse di oro, diamanti o immobili di pregio.

«Il mio timore è che tutto ciò non vada a finire bene - aveva confidato al Nyt in febbraio Adnan Mazarei, ex vice direttore del Fondo monetario internazionale -. Si sta trasformando in una bolla». Se così fosse, nella peggiore ipotesi, vedendosi bruciare i risparmi di una vita, centinaia di migliaia di iraniani potrebbero riversarsi sulle strade per rovesciare la loro collera contro le istituzioni, chiedendo addirittura un cambio, come avvenuto in novembre quando furono raddoppiati i prezzi della benzina. 

Molti analisti ostentano sicurezza: si tratta di una bolla. E come ogni bolla, deve scoppiare. Ma è una bolla particolarmente resistente. Che sfida la logica.