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 2020  maggio 27 Mercoledì calendario

Su "La tentazione del muro" di Massimo Recalcati (Feltrinelli)

Ma se davvero nulla sarà più come prima, alla fine della pandemia, dove troveremo le parole per raccontarlo? Una riformulazione del concetto di società non può avvenire per caso e spontaneamente, come un’opera di semplice buona volontà o un postumo della grande paura, senza l’ambizione e la fatica di una ri-creazione della cittadinanza e della rappresentanza, di una reinvenzione del lavoro e del capitalismo, e quindi necessariamente di una riformulazione della democrazia: partendo, per necessità, dalla ricostruzione di un lessico civile capace di esprimere i fondamenti, le tensioni e il potenziale dell’epoca nuova in cui dovremo infine entrare.

Massimo Recalcati ha compiuto questo viaggio concettuale tra le parole che dovrebbero segnare il perimetro dello spazio pubblico più vasto, nel quale agisce il meccanismo di scambio, riconoscimento e relazione tra i cittadini. Lo ha fatto prima che arrivasse il morbo con la sua forza cieca capace di destrutturare gli equilibri in cui vivevamo, e di cambiare la scala delle nostre priorità. Letto oggi, attraverso la lente deformante dell’infezione universale, il suo libro (La tentazione del muro, Feltrinelli) diventa una dogana tra le due età del prima e del dopo, una selezione precisa tra valori, pulsioni, istinti e passioni, utile per capire cosa salvare nella nuova stagione e cosa invece lasciar affondare senza rimpianti nei residui del virus, perché aveva già avvelenato la nostra vita, prima di lui.

Dov’eravamo rimasti? Nella società che si crede protetta e garantita Recalcati cerca le spie di un disagio della civiltà, e le trova nel degrado neolibertino dell’individualismo (che radicalizza la libertà a licenza, rigettando ogni limite) e nella trasfigurazione del confine in muro, che smarrisce la dimensione del transito, dell’incontro e dello scambio.
La spinta dell’uomo a difendere i confini della propria vita individuale e collettiva non è in sé né barbara né incivile perché "non esiste vita umana senza memoria delle sue radici", ma deve tener conto della spinta contrapposta all’erranza, del desiderio di libertà, dell’avventura, della conoscenza. Se la prima spinta prevale al punto da sacrificare la libertà nella chiusura in se stessi, o se la seconda prevarica tagliando le radici e le appartenenze in uno sbandamento anonimo, salta la "proporzione antropologica" tra la necessità del confine e l’impulso a superarlo. Noi abbiamo visto il confine sclerotizzarsi in recinto, in una metamorfosi patologica nata da uno sviluppo paranoide del sentimento identitario, unito ad una sorta di delirio di contaminazione che trasforma lo straniero in una minaccia permanente alla purezza originaria.

È una sensazione paurosa della vita che rigetta l’"altro" come nemico permanente ma intanto agisce anche su di noi, perché contraddice fino ad annullarla la definizione dell’uomo come essere sociale, fissata da Aristotele e ribadita da Omero con le parole di Nausicaa: "Vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri".
Ci sono dunque sentimenti sociali che fanno parte delle radici identitarie del nostro mondo europeo, e i sovranisti dovrebbero ricordarlo. Ma quello spirito sociale è stato soffocato e sopraffatto, nella fase che abbiamo attraversato, dalla coltivazione politica di contro-sentimenti elementari e popolari, basici, capaci di costruire un clima e un’atmosfera. Il primo è l’odio, che Recalcati distingue dall’aggressività perché non è un impulso ma una vera e propria passione negativa, più antica dell’amore, capace di dare un volto al male: e diventa invidia quando unisce fascinazione e frustrazione trasformando la potenza vitale dell’invidiato in bersaglio.

Il secondo schema negativo d’interpretazione del reale è il fondamentalismo, cioè la deformazione dogmatica della verità, consolidando l’ignoranza come una vera e propria passione e trasformandola in pilastro di una verità assoluta. Il fondamentalista è per natura un grande semplificatore che non ammette il confronto di opinioni e la varietà nelle interpretazioni, e riduce dispoticamente la molteplicità delle lingue ad una sola mentre, come ha spiegato Benjamin, "la democrazia è la necessità della traduzione". Un passo più in là troviamo il fanatismo, con la sua propensione a compiere il male nel nome del bene, cancellando di conseguenza ogni limite al peggio. È una fuga dall’autonomia verso le catene della sottomissione, per evitare il peso vertiginoso della scelta, la responsabilità etica della libertà, cancellando la storia e il volto dei singoli in nome dell’universale della Causa, a cui tutto va subordinato e che tutto giustifica. Perché la libertà è anche questo, ci ricorda Recalcati, "il luogo elettivo dell’angoscia di fronte al dilemma della scelta".

Una libertà che non si può vivere da soli, perché senza l’"altro" la vita si svuota e cade nel nulla: ma che ha una sua perversione quando diventa puro arbitrio, volontà di potenza e si pone al di sopra della legge rifiutando ogni limite. In questa concezione libertina dei diritti, la libertà si separa dalla comunità, dalla regola democratica. Tocca alla politica lavorare sul senso del limite per costruire non un’utopistica e impossibile comunità di uguali, ma un sistema di equità tra soggetti disuguali.

Il populismo nasce e cresce negando questo procedimento di ricomposizione di una civiltà, vive la politica stessa come tradimento del popolo trasformato in giustiziere sociale, scatena l’invidia sociale contro i simboli della democrazia, in una sollecitazione anti-istituzionale permanente. E invece, la zona dove la libertà e la comunità si incontrano è proprio quella in cui operano le istituzioni. Ogni istituzione porta con sé qualcosa di commovente e misterioso, il segreto della democrazia, perché conserva in sé l’arcano dello stare insieme, conclude Recalcati. Che recupera il monito-rimprovero in versi di Pasolini: "Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno/ i due fratelli Kennedy, se non per un’istituzione"?