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 2020  maggio 27 Mercoledì calendario

I sei tail risk per il dopo Covid

Il rischio di una nuova ondata di contagi, la disponibilità di un vaccino e un ritorno alla normalità nella mobilità e nei rapporti sociali sono gli elementi per capire quale sarà lo scenario economico per il prossimo futuro. Si dovrebbe però guardare oltre, cercando di individuare anche i cosiddetti tail risk: eventi poco probabili che, nel caso si verificassero, pregiudicherebbero una ripresa duratura. Ne vedo sei.

1. Stagnazione
Le catene di produzione globali non spariranno, ma si tenderà a diversificarle e a portarle più vicine a casa, aumentando anche le scorte per garantire il flusso dei beni. Questo comporterà un aumento dei costi di produzione e una riduzione nel commercio internazionale, già colpito dal conflitto Usa-Cina, destinato a caratterizzare a lungo gli equilibri geopolitici. Senza contare una diffusa tendenza al protezionismo delle imprese nazionali. Come dopo ogni grande shock, la maggiore incertezza porta le famiglie ad aumentare i risparmi, riducendo i consumi, e le imprese a rinviare i piani di investimento. C’è infine il probabile fardello di maggiori imposte per smaltire il gigantesco debito pubblico accumulato. Tutti elementi che portano al rischio di stagnazione della produttività, motore della crescita.
2. Inflazione
Il crollo della domanda oggi fa temere la deflazione. Ma alla lunga non è così. Il trend trentennale che ha portato alla virtuale eliminazione dell’inflazione nel mondo (a doppia cifra solo in Argentina; superiore al 5% solo in Turchia e Pakistan) ha trovato origine soprattutto nella globalizzazione, che ha calmierato il costo del lavoro, e nell’indipendenza delle Banche Centrali dalle azioni dei governi. Ma la crisi attuale ridurrà i benefici della globalizzazione sui costi e ha portato alla monetizzazione dell’enorme debito pubblico accumulato. Per smaltirlo, l’inflazione è da sempre la modalità preferita dai governi. E potremmo avere la stagflazione, come negli anni ’70.
3. Renminbi
Coronavirus, guerra dei dazi e tecnologica con gli Usa, caduta del commercio internazionale, ricollocazione delle catene di produzione, hanno costretto la Cina a rinunciare a un obiettivo ufficiale di crescita, che da 50 anni guida la politica economica del paese. Con un welfare rudimentale, tuttavia, la Cina non può scendere sotto un certo livello di crescita se il partito vuole mantenere il consenso sociale indispensabile alla conservazione dello status quo. Senza contare il rischio di una escalation delle violenze a Hong Kong. La stabilità dello yuan non è mai stata messa in discussione, data l’ambizione cinese a farne una valuta di riserva internazionale. Una svalutazione è una soluzione estrema: ma un rischio perché innescherebbe una catena di crisi valutarie (e di default) nei paesi emergenti.
4. Corporate default
Per le imprese, Covid equivale oggi a una crisi di liquidità. Per evitare che degeneri in crisi finanziaria, Governi e banche centrali hanno reagito con un programma inusitato di crediti alle imprese. Così facendo hanno tuttavia aggiunto debito a un indebitamento già elevato. Ci vuole tempo perché emergano gli strascichi finanziari di una crisi economica. Solo se la ripresa sarà sufficientemente forte e diffusa la crisi di liquidità non si sarà trasformata in una crisi di solvibilità per le imprese. Per ora, la bassa valutazione che il mercato attribuisce alle banche ci dice che questo tail risk esiste.
5. Riyad
L’ancoraggio del cambio al dollaro è da 25 anni un pilastro della politica economica saudita. Poiché Riyad esporta solo petrolio, il cui prezzo è in dollari, i ricavi dalla vendita del greggio sono anche l’unica fonte di entrate pubbliche, costantemente in deficit dal 2014 (in media, 9% del Pil) per finanziare la spesa militare e gli investimenti pubblici necessari a mantenere il consenso indispensabili al potere della casa regnante. Il finanziamento dell’enorme deficit espone Riyad ad attacchi al cambio fisso, specie perdurando la debolezza del greggio (bruciati 270 miliardi di riserve in 6 anni). Dovesse svalutare, ridurrebbe le entrate del governo e aumenterebbero i prezzi al consumo, mettendo a rischio la stabilità del regime: un terremoto nella zona più instabile del globo, e nel mercato delle fonti di energia.
6. Euro
In finanza, un dissesto avviene quando un debitore non riesce a ottenere dal mercato i finanziamenti necessari a prescindere dal tasso che è disposto a pagare: da questo punto di vista l’Italia è probabilmente in uno stato di insolvenza latente dal 2009. L’armamentario della Bce (dal Whatever it takes, ai vari QE, PEPP, OMT), e la mutualizzazione di fatto del nostro debito (i finanziamenti di Commissione, Mes e Bce sono garantiti dal capitale di tutti i paesi dell’Eurozona) maschera una crisi altrimenti inevitabile. Ma come ha sintetizzato Lars Feld, consigliere della Merkel (a Repubblica del 23/5) «se l’Italia non fa le riforme […] il Pil non crescerà in modo duraturo, e ci sarà bisogno di un consolidamento dei bilanci pubblici dopo la crisi da coronavirus. Altrimenti […] il problema dell’Italia non farà che aumentare». Più chiaro di così. Sono riforme però che non riusciamo a fare da decenni. E il nostro dissesto metterebbe l’euro a rischio. Sarà "tail", ma è un rischio vero.