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 2020  maggio 19 Martedì calendario

Su "Noi" di Paolo Di Stefano (Bompiani)

Ho l’impressione che la moda dei romanzi gialli stia declinando. Non so se sbaglio, ma dai tanti libri che leggo, vedo che l’attenzione si sta spostando verso la famiglia, soprattutto verso il rapporto del figlio col padre, segno di una crisi che tocca in profondità.


Il padre è la stella culminante della piramide familiare, o per lo meno lo è stato per millenni e ora che la stella dà segni di opacità, il forte legame con il paterno, con tutto quello che si porta dietro di antico, feroce e sacro, viene fuori dall’inconscio collettivo in forma di narrazione sorgiva, fatta di paura e amore, nonché di tenerezza e soggezione. Le decadenze, quando non sono sentite come condanne a cui ribellarsi con la violenza, comportano qualcosa di languido e struggente.


Languido e struggente è il racconto che Paolo Di Stefano ci consegna con la sua lunga e appassionata autobiografia. Pasolini l’avrebbe chiamato un testo «in forma di rosa». E non parlo del rosa femminile che viene subito visto come un insulto, ma rosa come il fiore paradigmatico per eccellenza, il fiore che simboleggia il segreto e la sua rivelazione. Non a caso nella mitologia greca la rosa nasce dal sangue di Afrodite che nel soccorrere Adone, si ferisce sulle spine .


Tutto comincia nel romanzo dal semplice titolo Noi con un pecoraio di Avola, un don Giovanni che viene definito dal figlio «violento e assatanato»: «Trattava le donne come pecore e le pecore come pecore, cioè come donne». L’uomo non rinuncerà mai alle sue prerogative, alla sua libertà sessuale, alle prepotenze egoiste e narcise di un capo di famiglia all’antica.


Il figlio di tale padre è all’inizio un ragazzo timido, sognatore, propenso alle ironie sottili , che viene chiamato Vannuzzo. «Se non fosse stato calvo, sarebbe diventato un’altra persona, un altro uomo, un altro insegnante, un altro padre», irride con gusto surreale l’autore, «un insegnante calvo è diverso da un insegnante dai capelli folti, figurarsi un padre». Il sarcasmo fa da impuntura sottile in questa trama che pazientemente viene tessuta, lavorando di memoria, di invenzione, di allegria.


C’è una madre, Corradina, detta Dina o Dinuzza , sempre intenta a cucinare per i tanti familiari e i parenti. I suoi ricordi del fidanzamento, riraccontati dal figlio, sono diventate parti delle mitologie familiari : «In quel giorno nostro padre, chiuso in un abito carta da zucchero, cravatta, fazzoletto si presentò in corso Gaetano D’Agata, gli aprì Pierino e dalla penombra apparve lei, luminosa, un vestito violetto chiaro di lana fine e nei capelli un elegante fiocco di stoffa fiorato, due scarpette bicolore con tacco». Era il 1955: «Il vestito con quel corpetto stretto l’abbiamo fatto fare su misura da Antonuccio, il sarto migliore del paese», aggiunge lei, fiera, «io volevo i bottoncini davanti e papà mio come sempre mi ha accontentata»...


Dina è una donna intelligente e pratica che ha la perfetta consapevolezza delle ingiustizie che subisce ma non protesta mai. La sua è una visione eroica, baldanzosa e arcaica della schiavitù domestica che viene data come un destino naturale a cui non ci si può sottrarre.


La famiglia Di Stefano è molto unita, ma agitata, come tutte le famiglie, da discordie interne, grandi affetti, ma anche competizioni, gelosie, rabbie, ritorsioni. Soprattutto da parte del vecchio patriarca che non vuole rinunciare ai suoi privilegi. È una famiglia povera che espatria per trovare lavoro e casa. Prima nel nord del paese e poi in Svizzera.


Ma mentre Dinuzza si adegua e mette radici, Vannuzzo non è mai contento e quando si trova in Svizzera, sogna di tornare ad Avola e quando si trova ad Avola, rimpiange la Svizzera. «Siamo in arrivo o forse in partenza. Siamo sempre in partenza, sempre», ricorda il figlio, «da nord a sud, poi da sud a nord e viceversa».


Ma da una parte o l’altra, dovunque si trovi, non può fare a meno di portarsi dietro gli odori. Il profumo della Svizzera «è di pulito, una miscela di trucioli, formica, matite Caran D’Ache appena temperate e colla». Mentre l’odore che ricorda di Avola è «quello delle case che respirano, le sento respirare quel che c’è intorno: le altre case, la strada, le strade, l’aria, la polvere, le mandorle, le vite che passano. E mi pare che anche noi come le case, respiriamo quel che abbiamo intorno, ogni altra vita che a sua volta respira».


Piano piano però il dolce Vannuzzo diventa intollerante e rabbioso. Il figlio lo rimprovera di essere diventato, invecchiando, irascibile come il nonno. «Eppure oggi sono altrettanto certo che nostro padre era un uomo buono, nonostante le intemperanze, un buon padre ammattito e trasformista che lasciò ai posteri una doppia, tripla immagine di sé: in casa l’inflessibilità cupa alternata allo sfogo furibondo e imprevedibile seguito dal tentativo di recuperare credito e serenità; fuori l’ottimo padre di famiglia e il modello di equilibrio, a scuola il seguace dello stoicismo e il portavoce di una paternalistica moralità antimoderna, una comprensione morbida , ideale per il buon insegnante. I suoi studenti lo amavano, i suoi figli lo odiavano e più si sentiva odiato, più si impegnava, ma dolorosamente e quasi con gusto autolesionistico, per farsi odiare senza mai riuscire pienamente a raggiungere lo scopo».


Significativa questa frase: un padre, per quanto ingiusto, per quanto intollerante, severo, illogico e violento, non si scrollerà mai di dosso quell’autorevolezza che gli ha dato la tradizione culturale e religiosa a cui apparteniamo . La sacralità della paternità è ancora lì a ricordarci che in cielo siede un Padreterno, severo e solitario, mai accompagnato da una figura femminile.


Ma ogni famiglia ha una ferita dolorosa che continua in qualche modo ad aprirsi in ogni occasione di crisi. Nel caso della famiglia Di Stefano si tratta della morte precoce del figlio e fratello Claudio. A lui è dedicata l’ultima parte di questa autobiografia amara e sfavillante. Lettere e ricordi che si intrecciano con poesie-ricordo. La ferita duole, ma il dolore suscita ricordi che sbocciano colorati e tormentosi.


«Che cosa resterà di tanta ostinazione? » si chiede l’autore. «Guarda che la nostra vita è stata un romanzo. Non devi buttarla via, devi scrivere, Paolo, scrivi, scrivi!» incalza la voce materna . «E va bene, scrivo, ma dove le metto tutte queste cose?» si chiede il figlio perplesso, «Che cosa ne faccio? Ci sono problemi di architettura, di prime e seconde e terze persone che nostra madre ignora e lo strazio dei tempi verbali e del tempo esistenziale, che sono un po’ la stessa cosa a pensarci bene».


La voce della madre insiste: «Oggi tutti scrivono ma il dolore nessuno lo fa sentire». Ed è proprio dal dolore che Paolo Di Stefano comincia a raccontare. Il dolore di stare al mondo, il dolore di non capire, il dolore di soccombere comunque, perdendo gli affetti e il futuro.


La trama spessa e compatta del tessuto narrativo, fa spazio ogni due o tre pagine a una poesia, come un piccolo intervallo musicale, qualcosa che ravviva il senso del ritmo e progetta sul palcoscenico della storia una voce agra e divertita: «Ho capito bene,/ vuoi sapere come va/ da queste parti/ nel di qua dell’aldilà?/ Va bene/ si volteggia di lato/ e non è mai tardi/ per camminare sulle mani/ correre a testa in giù,/ tuffarsi/ giocare a palla / con il bassotto Bobi/ che fa il portiere/ e sembra Giuliano Sarti/ (te lo ricordi il portiere dell’Inter)?/quando si allunga/verso l’alto e ricade per terra/con il pallone fra le zampe».