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 2020  maggio 26 Martedì calendario

La contesa sulla scoperta dell’America

Qualche numero, per cominciare. Nel 1492, quando sbarcò Cristoforo Colombo, nelle Americhe vivevano settantacinque milioni di persone. Gli abitanti di Cahokia, nella piana del Mississippi fino all’anno Mille la più grande città nordamericana, erano più di diecimila. Tenochtitlan, fondata dagli aztechi nel 1325, di abitanti ne contava 250 mila. In Europa, in quello stesso 1492, vivevano sessanta milioni di persone, quindici milioni in meno che nelle Americhe. Tra il 1500 e il 1800 circa due milioni e mezzo di europei emigrarono nel nuovo continente. Con la forza trasferirono oltre l’Atlantico dodici milioni di africani per farne degli schiavi. E sterminarono, con armi e malattie, due terzi dei nativi americani: cinquanta milioni di esseri umani.
In principio – racconta Jill Lepore (insegnante a Harvard, premio Pulitzer, collaboratrice del «New Yorker») in Queste verità. Una storia degli Stati Uniti d’America, che esce oggi per i tipi Rizzoli – la storia del Nuovo Mondo fu di impronta interamente iberica. Nel 1493, quando Colombo tornò dal suo «incredibile viaggio», un Papa spagnolo, Alessandro VI (al secolo Rodrigo de Borja, italianizzato in Borgia), rivendicò «l’autorità di spartire terre abitate da decine di milioni di persone» come se fosse «il Dio della Genesi». Assegnò alla Spagna tutte «le terre oltreoceano a occidente del meridiano che passava a circa trecento miglia a ovest di Capo Verde»; e al Portogallo ciò che stava a Est di quella linea.
Com’era da prevedersi, i sovrani di Inghilterra, Francia e Paesi Bassi trovarono «assurda» quella decisione di Papa Borgia. «Il sole risplende per me come per gli altri», obiettò il re di Francia, «gradirei molto conoscere la clausola del testamento di Adamo che mi esclude da una parte del mondo». Ma non ci fu niente da fare. Almeno per un secolo. Finché gli inglesi tentarono (ma senza riuscire) di stabilire colonie sulla costa orientale degli attuali Stati Uniti, nella regione che chiamarono «Virginia» in onore di Elisabetta I, la «regina vergine». L’impresa che più si avvicinò al successo fu la «colonia perduta» di Roanoke, creata nel 1587 su un’isola costiera della Carolina del Nord (allora parte della Virginia). La spedizione fu finanziata nel 1584 dallo scrittore, poeta e spia Walter Raleigh a cui la regina Elisabetta aveva rilasciato un brevetto reale – ossia una licenza – con la quale gli assegnava il diritto di sbarcare in un luogo chiamato Newfoundland, una «nuova terra trovata», un nuovo mondo, un’utopia, un «nessun luogo». John White ne fu il governatore. L’esperimento fu coronato da successo ma, come vedremo, nel momento della verità l’Inghilterra non fu nella possibilità di aiutare i coloni.
I conquistadores spagnoli, scrive Jill Lepore, avevano poi messo piede per la prima volta in armi sul continente americano nel 1513. La colonizzazione era iniziata già da qualche tempo, però fu a seguito della nuova impresa militare che nell’arco di pochi decenni il territorio della Nuova Spagna si estese fino ad includere non soltanto l’attuale Messico ma anche più di metà dei futuri Stati Uniti. La giurisdizione spagnola si estendeva longitudinalmente dalla Florida alla California e a Nord arrivava fino alla Virginia, sulla costa atlantica. E al Canada su quella pacifica. Gli inglesi sarebbero arrivati un secolo dopo. 
La Spagna si era posta fin dall’inizio del Cinquecento il problema della liceità del proprio intervento militare. Se avesse o meno, cioè, il diritto di impossessarsi di quelle terre e schiavizzarne gli abitanti. Nel 1504 il re di Spagna riunì un consiglio di studiosi e uomini di legge perché lo «aiutassero a decidere». A dire cioè in modo chiaro, inequivocabile se la conquista fosse «in accordo con le leggi umane e divine». La discussione, approfondisce Lepore, si incentrò su due questioni: se «i nativi possedessero o meno le proprie terre» e «se fossero stati in grado di governarsi». Cioè se avessero «autorità» e «sovranità» sul continente scoperto nel 1492 da Cristoforo Colombo. E fu a quest’ultimo che i dotti si rifecero. Dal momento che «nel diritto romano il governo esisteva per amministrare i rapporti di proprietà» e poiché «secondo Colombo i nativi non avevano un governo», se ne poteva dedurre che essi non avessero né «autorità» né «sovranità» in America.
Gli esseri umani che abitavano quei posti potevano inoltre essere fatti schiavi a norma della capziosa interpretazione di un principio enunciato nella Politica di Aristotele: «comandare e obbedire sono relazioni non solo necessarie ma anche utili e fin dalla nascita alcuni sono destinati a obbedire, altri a governare». Tutte le relazioni, secondo Aristotele, sono «gerarchiche»: l’anima domina il corpo, gli uomini dominano gli animali, i maschi dominano le femmine e i padroni gli schiavi. La schiavitù per il filosofo non era altro che un fatto naturale: «Chi per natura non appartiene a sé ma a un altro, pur essendo uomo è uno schiavo; e appartiene a un altro quell’uomo che, pur essendo un essere umano, è oggetto di proprietà». Aveva sostenuto Aristotele che questi individui sarebbero stati «schiavi per natura» in quanto avevano «minore capacità di ragionare» e per essi «il partito migliore» era quello di «sottomettersi all’autorità di chi è loro superiore». Il re fu ovviamente soddisfatto di questo responso.

Ma un sacerdote domenicano, Antonio de Montesinos, diede voce al proprio dissenso e nel dicembre 1511, in un sermone pronunciato in chiesa, domandò pubblicamente: «Ditemi, con quale diritto o secondo quale giustizia tenete questi indiani in una schiavitù crudele e mostruosa? Con quale diritto conducete guerre così odiose contro questa gente che vive mitemente e in pace nelle proprie terre… perché ne avete distrutto un così ampio numero consentendovi omicidi e devastazioni?». Non «sono anche loro», chiedeva de Montesinos, «esseri umani?».
Il sermone del sacerdote fece scalpore nell’ampio mondo che aveva come riferimento la Chiesa di Roma. Il colono Bartolomé de Las Casas, scosso da quelle parole, rinunciò ai suoi schiavi e si fece sacerdote. Negli anni successivi si dedicò a raccontare tutto ciò a cui aveva assistito. Il tutto, qualche tempo dopo, nel 1542, prese la forma di un libro: Brevissima relazione della distruzione delle Indie. Nel quale si riproponeva la domanda: «Quale persona sana di mente approverebbe una guerra contro uomini inoffensivi, ignoranti, dall’indole gentile e privi di qualunque difesa?».
La Spagna fu costretta dalle parole di Montesinos a correre ai ripari e nel 1513, alla vigilia dell’impresa, assunse quella che Lepore definisce «un’inquietante decisione». Al cospetto di ogni uomo, donna o bambino che volevano rendere schiavo i conquistadores avrebbero dovuto leggere ad alta voce un requerimiento («ingiunzione») che conteneva una breve storia del mondo dalla creazione, una storia delle origini «intesa a giustificare le violenze» di quei giorni.
Come prima cosa il requerimiento ricordava che «il Signore nostro Dio, vivente ed eterno, creò i cieli e la terra, di cui voi e noi, e tutti gli uomini del mondo siete e siamo i discendenti, come tutti quelli che verranno dopo di noi». Poi ingiungeva a coloro ai quali veniva letto di «riconoscere la Chiesa come signora ed entità suprema del mondo intero, il suo sommo sacerdote, chiamato Papa, e, nel suo nome, il re e la regina». Nel caso i nativi avessero accolto positivamente tale richiesta, i conquistatori promettevano di accoglierli a loro volta «con tutto l’amore e la carità». E di non farli schiavi, lasciando loro le mogli, i figli e le terre. In caso contrario, minacciavano, «entreremo con la forza nel vostro Paese, vi faremo guerra in tutti i modi possibili, vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa e delle loro altezze; prenderemo voi, le vostre mogli, i vostri figli e vi renderemo schiavi». Si trattava, come è evidente, di una formalità dal momento che nessuno dei nativi capiva neanche una parola di quel che veniva loro detto. E anche nelle pochissime occasioni in cui si trovava qualcuno che riusciva a fare da interprete, il risultato era più o meno lo stesso.
In Spagna l’eco di quelle imprese sanguinose fece sì che riprendesse la discussione. I sostenitori dei conquistadores sostenevano che i «selvaggi» erano in contrasto con le leggi di natura e che ciò era provato dal loro cannibalismo. Las Casas respingeva queste accuse come «favole belle e buone, stupidaggini indecenti». Ma un intellettuale di corte, Ginés de Sepúlveda (che, pure, non aveva mai messo piede nel Nuovo Mondo) ripropose le teorie di Aristotele, sulla base delle quali sostenne che la distanza tra nativi e spagnoli era grande come quella «tra scimmie e uomini». E formulò la seguente domanda: «Come possiamo dubitare che questa gente, così incolta, così barbara e così contaminata da empietà e dissolutezza» non «meriti» di essere conquistata?

In forza di ciò gli spagnoli, diversamente da quanto sarebbe accaduto con i coloni inglesi, non si trasferirono nel Nuovo Mondo con le proprie famiglie. Si presentavano come eserciti di soli uomini. Combattevano, sterminavano (grazie alla superiorità delle loro armi) rapivano, stupravano le donne indigene, le sposavano, ci facevano dei figli. Nel 1565 furono in grado di fondare a San Augustin in Florida la loro prima importante colonia.
Elisabetta I d’Inghilterra considerava gli spagnoli degli «idolatri dalle grandi ricchezze», che «esercitavano crudeltà e tirannia». A conferma di questi giudizi, circolava ampiamente in traduzione inglese la Relazione di Las Casas corredata da illustrazioni dei misfatti dei colonizzatori ispanici. Era intitolata Spanish Cruelties («Atrocità spagnole») poi divenuto The Tears of the Indians («Le lacrime degli indiani»). Nel 1584 la sovrana chiese al «più avveduto dei suoi ministri», Richard Hakluyt, se fosse possibile «fondare delle colonie inglesi nelle Americhe» dove la Gran Bretagna aveva già inviato in perlustrazione nel 1497 John Cabot, scomparso però nel corso del viaggio di ritorno in patria.

Gli inglesi erano persuasi – «quasi fosse un articolo di fede, una virtù caratteristica della loro “nazione”» – di essere più nobili degli spagnoli: «Più giusti, saggi, benevoli e interessati alla libertà». «Il governo spagnolo nelle Indie è arrogante e tirannico», fu la risposta di Hakluyt alla regina, e, come ogni popolo ridotto in schiavitù, i nativi «tutti insieme chiedono a gran voce libertà, libertà». Poi Hakluyt sottopose a Elisabetta una Dissertazione particolareggiata a proposito della grande necessità e delle molteplici opportunità che possono derivare al regno d’Inghilterra dalle recenti scoperte in Occidente. Hakluyt era convinto che l’Inghilterra non dovesse più «limitarsi ad attaccare le navi spagnole. Fondare colonie, sosteneva, avrebbe fatto «moltissimo per la diffusione del Vangelo di Cristo» e avrebbe procurato alla madrepatria «tutte le materie prime d’Europa, Africa e Asia». Se poi la regina d’Inghilterra, avesse fondato delle colonie nel Nuovo mondo, presto si sarebbe diffusa la voce che gli inglesi «trattano la gente del posto con tutta l’umanità, la cortesia e la libertà», talché i nativi si sarebbero «consegnati da soli al suo governo e si sarebbero apertamente ribellati agli spagnoli». L’Inghilterra avrebbe «prosperato». Il protestantesimo «avrebbe battuto il cattolicesimo». La libertà «avrebbe sconfitto la tirannia».
Elisabetta non si lasciò persuadere. Ma era a quei tempi preoccupata perché nel 1584 aveva espulso l’ambasciatore di Madrid dopo aver scoperto un complotto spagnolo per invadere l’Inghilterra attraverso la Scozia. Forse era interessata già allora a una presenza inglese nel Nuovo Mondo, ma non voleva che fosse la corona a coprirne le spese. Decise così di rilasciare «a uno dei suoi cortigiani favoriti», il Walter Raleigh di cui si è detto, il brevetto che autorizzava una spedizione di sette navi e seicento uomini. Particolare importante, Raleigh fu fortemente influenzato da un libro di Michel de Montaigne, Dei cannibali (1580), in cui il filosofo francese scriveva: «I barbari non ci appaiono per nulla più strani di quanto noi sembriamo a loro … Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi».
Quando, però, nel 1588 gli inglesi avrebbero dovuto mandare navi in soccorso di John White a Roanoke, si trovarono impegnati nella decisiva battaglia contro l’invincibile armata spagnola. Battaglia che l’Inghilterra vinse. Ma al prezzo di mandare in frantumi il sogno di Roanoke e rinviare di oltre trent’anni, ai Padri pellegrini del 1620, l’autentico inizio dell’avventura americana.