La Stampa, 26 maggio 2020
Intervista all’artista Serge Nitegeka
«La mia famiglia e io siamo scappati in fretta e furia dalla nostra casa in Ruanda. Abbiamo attraversato a piedi la frontiera con il Congo, fino alla città di Goma, portando con noi solo pochi oggetti. Ricordo le coperte arrotolate, la legna per scaldarsi e i contenitori di fortuna». Il «fragile carico» dei migranti, come lo definisce Serge Alain Nitegeka, artista ruandese in grande ascesa a livello internazionale, che ha raffigurato questi oggetti in un’installazione per la mostra «Black migrant» in corso alla Marianne Boesky Gallery di New York (temporaneamente sospesa a causa del coronavirus).
Per Serge Nitegeka l’attuale pandemia è solo l’ultimo degli ostacoli in ordine di tempo. Fuggito dal Ruanda a 11 anni, nel pieno del genocidio tra Hutu e Tutsi in cui morì 1 milione di persone in 100 giorni, ha attraversato mezza Africa prima di arrivare con pochi dollari in tasca a Johannesburg, in Sudafrica. L’inizio di una nuova vita, la voglia di mettersi alle spalle il ricordo dei cadaveri uccisi a colpi di machete intorno a lui e l’uso dell’arte come terapia per curare ferite profonde, mai del tutto rimarginate. Trentasette anni, sposato con due figli, Serge Nitegeka è un artista riservato. L’arte, più che la parola, è la sua forma d’espressione. Il legno il materiale più usato, ma ama sperimentare e adattare il medium alle sue esigenze creative. Sculture e installazioni sprigionano, in chiave minimalista, ostacoli e sofferenze patite da un bambino, a cui una brutale carneficina ha impedito di vivere l’infanzia. Al telefono dalla sua casa di Johannesburg ci spiega il Leitmotiv delle sue opere che ruotano intorno all’esperienza della migrazione forzata.
Qual è il tema centrale dell’esposizione newyorkese?
«Una delle principali installazioni si sviluppa intorno al viaggio forzato dei migranti centro-africani, con una particolare attenzione agli oggetti che trasportano».
Che cosa cerca di trasmettere a chi visita le sue mostre?
«Sono maniacale nella progettazione dello spazio. Analizzo nel dettaglio dove incastonare le mie opere. È importante che chi osserva si immedesimi nelle difficoltà patite dal migrante».
Come avviene la progettazione?
«Negli ultimi 5 anni sono stato costretto a realizzare tutto in remoto, non potendo essere presente fisicamente. Sono in attesa che il governo sudafricano mi conceda la cittadinanza, fino ad allora non posso viaggiare. . Seguo la disposizione delle sculture e delle installazioni attraverso video-chiamate e modelli tridimensionali».
Uno dei tanti problemi di coordinare un’installazione da remoto. Quanto è difficile?
«Negli anni mi sono abituato. Da questo punto di vista sto vivendo la pandemia in modo più rilassato. La tecnologia ha un ruolo cruciale e mi permette di avere un accesso immediato al luogo dove verranno esposte le mie opere. Il bello dell’arte oggi è che le opere possono viaggiare anche se l’artista rimane fermo. La distanza, però, mi genera una forte sofferenza. Mi pesa non poter toccare e sentire gli oggetti. La mia arte è fisica e non essere presente, non respirare lo spazio è un grande dolore».
Che ruolo ha l’arte nel curare le sue ferite interiori?
«Ho iniziato a creare oggetti con le mani fin da piccolo. Era un’esigenza che ho iniziato a coltivare subito dopo la fuga dal Ruanda. Non avevo niente e mi affascinava realizzare da zero un’idea che mi passava per la mente. Crescendo ho capito che gli oggetti potevano diventare opere d’arte. Quando disegno o lavoro a una scultura mi isolo dal mondo. La mia mente si astrae, non penso al passato, trovo lo zen. Credo nella funzione terapeutica dell’arte. Come alternativa pedalo in bicicletta per ore ».
Lo spazio ha un ruolo cruciale nelle sue installazioni, che rapporto ha con lo studio dove lavora?
«Ho cambiato location di pari passo con le mie ambizioni. Johannesburg ha uno scenario artistico vibrante, ma preferisco non condividere i miei spazi. Trascorro le giornate in un grande studio per far espandere il più possibile lo spirito creativo. La mia fonte di ispirazione sono le chiese medievali costruite con il fine di elevare lo spirito umano. Non potendo visitare i luoghi dove sono posizionate le mie sculture e le installazioni, ho bisogno di ampi spazi per provare personalmente le sensazioni di chi osserverà i miei lavori».
Che sensazione le suscita vedere, a 26 anni di distanza dalla sua fuga, che milioni di migranti africani sono ancora costretti a lasciare le proprie case?
«Nella storia dell’umanità ci sono sempre state persecuzioni per motivi politici o religiosi. È un’esperienza orribile, difficile da digerire. Per me è stata come un’eruzione vulcanica che lascia ferite permanenti. È importante, però, non perdere la speranza, sentirsi vivi coltivando le proprie passioni e ricostruire una vita nel nuovo luogo di residenza, circondandoti di persone pronte ad accoglierti».