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 2020  maggio 20 Mercoledì calendario

Stato & Cdp, vizi capitali di uno strano azionista

Il lessico della crisi pandemica si è arricchito di molti, troppi termini. Non solo di una mole infinita di testi normativi. Open Polis ha calcolato che fino al 18 maggio ne siano stati emessi, solo a livello nazionale, ben 267. Per non parlare delle Regioni e dei Comuni. Presto sarà necessario avere un Testo Unico, come accade per l’attività bancaria o per gli adempimenti fiscali. Ci vorrà però anche un dizionario degli acronimi e delle formule importate direttamente e non tradotte.
Come temporary framework, ovvero il documento adottato dalla Commissione europea il 20 marzo, nei giorni più bui della diffusione del virus, per consentire agli Stati membri di derogare — al pari di quello che è avvenuto per i bilanci nazionali con il patto di stabilità — al divieto degli aiuti pubblici alle imprese. La deroga dovrebbe valere fino al 30 giugno 2021, ma è probabile che verrà estesa.

La concorrenza
Magari potessimo archiviare già in un anno il tempo disastrosamente sospeso dell’emergenza sanitaria. Il divieto di aiuti pubblici all’economia ha come ratio la volontà di non distorcere la concorrenza. Un bene quest’ultimo che, nella tempesta delle chiusure aziendali, dei crolli di fatturato, dei milioni di lavoratori in cassa integrazione, passa inevitabilmente in secondo piano. Ma non sparisce (per fortuna).
È opportuno ricordare che non tutti i Paesi sono in grado di aiutare allo stesso modo le loro aziende. Oltre il 50% dei fondi statali finora deliberati (chi ha pochi debiti se lo può permettere) sono andati a imprese tedesche. Il volume di fuoco di Berlino — in confronto a quello italiano e, per il momento, anche francese — è tre volte superiore. La concorrenza è già di fatto distorta a vantaggio del più forte.
Solo Lufthansa, per esempio, riceverà 6 miliardi. Lo Stato tedesco avrà il 25 per cento. E non è un caso che la commissaria responsabile e vicepresidente della Commissione, la danese Margrethe Vestager, abbia avuto più di un motivo di polemica con i tedeschi. Ma il virus fa digerire bocconi amari all’Antitrust europeo che ha posto comunque dei paletti all’intervento pubblico. Limiti riassumibili nell’assunto che lo Stato non ci debba mai perdere (vedremo) e debba intervenire solo quando non vi è più un alternativa di mercato. Non solo, il socio privato che non rispettasse una scadenza di riacquisto della quota pubblica verrebbe sanzionato con un meccanismo di step up. Salirebbe cioè lo Stato azionista.
Nel decreto Rilancio sono previsti, com’è noto, sussidi anche a fondo perduto per le piccole e medie imprese, tra i 5 e i 50 milioni di fatturato (in certe condizioni di calo della domanda), oltre a forme di partecipazione temporanea al capitale.

La dote
Per le imprese con oltre 50 milioni di ricavi, l’articolo 27 del decreto autorizza la Cassa depositi e prestiti (Cdp) «a costituire un Patrimonio Rilancio, di seguito Patrimonio Destinato» con una dotazione di 44 miliardi messa a disposizione dal ministero dell’Economia, ma non indicata nel decreto. Si tratta di maggiore indebitamento. Non del risparmio postale che Cdp normalmente gestisce. «Patrimonio Destinato o ciascuno dei suoi comparti — si legge sempre nel Decreto — è autonomo e separato» dalla Cdp. I creditori dell’uno non hanno la facoltà di rivalersi sui beni dell’altro.
Dunque, il profilo sarà assai diverso da altre iniziative della Cassa che sono intervenute, in forme diverse, nella finanza e nell’industria con partecipazioni dirette e un ruolo a volte di indirizzo e gestione. Come Cdp Venture Capital (70% Cdp Equity e 30% Invitalia); il Fondo italiano d’investimento (68% Cdp Equity, il resto investitori istituzionali); Fsi (Cdp Equity al 40% con il management al 51% e Poste Vita); F2i per i fondi infrastrutturali (Cdp Equity al 14%, il resto banche e fondazioni) e 4R, società per ristrutturare le aziende nella quale Cdp Equity ha il 40% e il resto è del management. Cdp è direttamente azionista di Tim con il 9,89%, è in Eni, Poste, Fincantieri, Enel. Cdp Equity è anche azionista di We Build, Sia, Open Fiber.
Patrimonio Destinato potrà diventare socio di imprese, anche quotate, purché con sede legale in Italia, partecipando ad aumenti di capitale o sottoscrivendo prestiti convertibili. Per un periodo non superiore ai 12 anni. Esclusi i settori bancario, assicurativo e finanziario. I requisiti saranno meglio dettagliati da un decreto attuativo del ministero delle Finanze di concerto con lo Sviluppo economico. E non sarà l’unico. Se necessario si chiederà il placet della Commissione europea. È prevista, nel tentativo di accorciare i tempi, già allungati dall’attesa dei decreti attuativi e delle approvazioni europee, una dichiarazione sostituiva da parte del legale rappresentante dell’azienda, ai fini per esempio dell’Antimafia.
L’area d’intervento dello Stato riguarda le «filiere produttive ritenute strategiche», ovvero attività essenziali per conseguire «obiettivi nazionali di sostenibilità», con attenzione ai livello occupazionali. E qui arriviamo al passaggio più delicato: «Possono essere effettuati interventi relativi a operazioni di ristrutturazione di società che, nonostante temporanei squilibri patrimoniali o finanziari, siano caratterizzate da adeguate prospettive di redditività».

I quesiti
Patrimonio Destinato potrà finanziarsi sul mercato emettendo propri strumenti finanziari, con garanzia pubblica. Non entrerà nella governance aziendale. E questo è un bene. Ma se si troverà di fronte a una gestione privata inefficiente o carente, per non dire peggio, non dovrebbe essere chiamato, del tutto in teoria, a tutelare l’investimento del contribuente? Quesito aperto. E ancora: è ovvio che, di fronte alla necessità di operare un vero turnaround aziendale, il ruolo sarà diverso. Lo Stato azionista accetterà una riduzione dell’occupazione, magari concentrata in una zona molto ristretta (con relative proteste sociali), per consentire all’impresa di avere un futuro di mercato, dunque come dice il decreto, «adeguate prospettive di redditività»? Sceglierà di far fallire un’azienda che non ha futuro o continuerà ad alimentarla con denaro pubblico che sarà sicuramente perduto? In alcune circostanze sarà dunque arduo distinguere il ruolo di Patrimonio Destinato da un normale private equity.
La lettura del testo del decreto fa emergere comunque le linee portanti dell’intervento pubblico. Un’opportunità estrema per l’impresa. L’ultima scelta scartate le altre. Peraltro destinata ad essere più costosa con il passare del tempo e liquidabile a valori di mercato non sempre facili da stabilire. L’azienda arriverà a chiedere l’intervento pubblico quando avrà esaurito altre forme di finanziamento o partecipazione al capitale. Una selezione in negativo dei candidati che ipoteca però la qualità dell’eventuale portafoglio dell’azionista pubblico.
Altro rischio è la dispersione degli interventi che indebolirebbe la capacità di indirizzo della politica industriale. Tutti interrogativi legittimi. La mossa era però necessaria in un’Ue in cui i Paesi con più capacità fiscale possono aiutare meglio le loro aziende.
Il successo dipenderà come sempre dalla qualità e indipendenza dei gestori. Cdp ha le competenze necessarie. Poi bisognerà resistere, soprattutto al ministero dell’Economia, «imprenditore di ultima istanza», alle pressioni della politica e scegliere il meglio per il Paese. In passato, spesso, si è fatto il contrario.