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 2020  maggio 20 Mercoledì calendario

Il libro dei libri di Lemaitre è una contro-epopea

Il Centro Svizzero, ameno luogo milanese che ospita il consolato e altri enti elvetici, dispone di un bar stile vecchio night. Lì una sera ho conosciuto Pierre Lemaitre, scrittore parigino ammirato dai tempi della formidabile Trilogia (Irène, Alex e Camille) che ha rivoluzionato la letteratura noir. 
Quella sera, tra un whisky con ghiaccio (lui) e una vodka gelata (io), parte della chiacchierata verté sulla sua passione per Alfred Hitchcock: «Cerco solo di scrivere storie che Hitchcock avrebbe voluto filmare» è uno dei mantra di Lemaitre. 
Credo che a Hitchcock sarebbe piaciuto immensamente filmare il capitolo iniziale di Lo specchio delle nostre miserie, l’ultima puntata (dopo Ci rivediamo lassù, che vinse il premio Goncourt, e I colori dell’incendio) dell’altra Trilogia, pubblicata da Mondadori, con cui Lemaitre ha sconvolto e rivoluzionato anche la letteratura non noir. È un capitolo perfetto.
Ciak, si gira. Parigi, 6 aprile 1940. Ristorante Petite Bohème («Cucina parigina!») interno giorno. La cameriera Louise, una ragazza molto carina, porta il dolce al tavolo del vecchio dottor Thirion, affezionato, ventennale e sin qui irreprensibile cliente, il quale le sussurra all’orecchio che desidererebbe vederla nuda. Vorrebbe solo guardarla e solo per una volta. Ed è pronto a pagarla, faccia lei il prezzo. Louise, confusa e offesa, spara una cifra spropositata per levarselo di torno. Il dottore senza battere ciglio le dà appuntamento in un albergo.
Camera Hôtel d’Aragon interno sera. Louise, in piedi, si spoglia davanti a Thirion seduto compostamente sul letto con addosso il cappotto. Più che uno striptease quello di Louise ricorda i preparativi di una visita medica: «Portò le mani dietro la schiena e si levò il reggiseno. Lo sguardo dell’uomo le si arrampicò sul petto, come attratto da una luce... Non vedeva l’ora che tutto fosse finito. Così si decise a togliere le mutandine... Gli occhi del vecchio scesero lentamente come una tenera carezza... lasciavano trasparire qualcosa di indefinibile e di infinitamente triste. D’istinto, Louise capì che doveva girarsi... Le parve di sentire il suo sguardo sulle natiche. Un ultimo scrupolo le fece temere che allungasse la mano, che tentasse di toccarla, e si voltò di scatto. Lui aveva appena estratto una pistola dalla tasca, e si sparò un colpo in testa».
Da Hitchcock spostiamoci a Corneille, la cosa più vicina a Shakespeare che i francesi siano riusciti a produrre (nella stessa proporzione con cui de Gaulle è stato il loro Churchill). Una citazione di Corneille brilla come un’insegna al neon all’inizio del libro: «Per commuovere intensamente, ci vogliono grandi dispiaceri, ferite e morti in scena».
La morte in scena del vecchio dottore davanti alla ragazza nuda è la chiave sentimentale dell’intero romanzo ed è anche il mistero da sciogliere (Lemaitre usa tecniche noir anche quando non scrive noir). Ci vorranno centinaia di pagine per sciogliere quel mistero, centinaia di pagine in cui si racconta un’altra storia che (corneillanamente) commuove intensamente. Non più la strana avventura del vecchio medico e della giovane cameriera, ma la storia di come una nazione intera, la Francia, perse nel giugno 1940 l’innocenza e l’onore, violentata con irrisoria facilità dalle truppe di Hitler che valicarono la invalicabile (a parole) linea Maginot (fortificazione in cui gli aggressori affondarono come un coltello nel burro), per andare a issare la bandiera del Terzo Reich sulla torre Eiffel (che per i francesi fu come sentir suonare la Marsigliese al contrario e scoprire, come si dice succeda in certe canzoni dei Led Zeppelin, che è un inno satanico).
In questo romanzo, così come nel resto della Trilogia, Lemaitre costringe la Francia a guardarsi allo specchio, non quello delle brame che la laureava più bella di ogni reame, ma quello delle sue miserie (da cui il poco misericordioso titolo del libro).
Per raccontare la sua contro-epopea, Lemaitre intreccia meticolosamente («Io sono l’orologiaio», dice di sé stesso) le vicende di una folla di personaggi. C’è la madre di Louise, lettrice bovaristica di romanzi romantici (Jane Eyre, Anna Karenina) che diventa domestica per amore (come nella celebre frase di Gianni Agnelli: «Dopo i vent’anni si innamorano solo le cameriere»). C’è la moglie di Thirion, carattere che Lemaitre disegna ricordandosi di un precetto hitchcockiano: «Migliore è il cattivo e migliore sarà la storia», così me lo riassunse quella volta al night svizzero.
Tra gli interpreti ci sono poi l’angelico sergente Gabriel e il caporalmaggiore Raoul Landrade (anche lui hitchcockianamente malvagio) che incontriamo la prima volta spersi nel labirinto della Maginot come aspettando Godot. Ma il loro è un Godot puntuale. Ad annunciarne l’arrivo è un soldato giovane e frastornato che, alla domanda «Cos’è ’sto casino?», risponde: «I crucchi... Hanno invaso il Belgio!». La Maginot è stata dribblata.
Quello di Gabriel e Raoul è un romanzo nel romanzo, un romanzo di espedienti, ma anche di valor militare, che ricorda le vergogne e le glorie della migliore commedia all’italiana di guerra (casting: Raoul lo vedrei con la faccia di Tognazzi).
Altri destini intrecciati da Lemaitre sono quelli della guardia mobile Fernand e dell’amata moglie Alice, appassionata lettrice delle Mille e una notte, una donna bellissima perfettamente rispondente al canone hitchcockiano. Diceva il regista che ci sono solo due tipi di storie che vale la pena raccontare. Uno lo sintetizzava in quattro parole: «Bella donna in pericolo». Il pericolo che corre Alice è annidato nel suo cuore fragile, sotto quel seno da maggiorata che accende di desiderio tutti i maschi del romanzo.
La guardia mobile Fernand per amore della moglie si macchia di un reato, lui che è il personaggio più onesto del libro, mentre presiede a un avvenimento realmente accaduto ma che sembra una suggestiva e simbolica invenzione romanzesca: il rogo delle banconote alla Banque de France, la distruzione del tesoro francese, miliardi di franchi mandati in fumo per non farli cadere in mano tedesca. Sempre Fernand sarà poi chiamato a scortare, in una dissennata e tragica processione lungo mezza Francia, un numeroso gruppo di poco raccomandabili detenuti prelevati dalle carceri parigine per scongiurarne l’evasione all’arrivo dei tedeschi. Un altro fatto realmente accaduto che lo scrittore, con il suo tocco da re Mida del romanzo, trasforma in una canagliesca odissea, I Miserabilial tempo della svastica.
C’è sempre molto cinema nel modo di raccontare di Lemaitre (perché lui vuole scrivere romanzi popolari e il cinema è il romanzo popolare per eccellenza). Lo rilevò anche un intenditore come Bernard Pivot consegnandogli il premio Goncourt e lodandolo per «le mélange d’une écriture très cinématographique». Questa scrittura cinematografica raggiunge l’apice allo scoccare dell’ora X del romanzo, l’8 Settembre francese («E all’improvviso, il 10 giugno, poco dopo il pasto delle undici, calò uno strano silenzio»), quando Parigi diventò città aperta come la Roma di Rossellini. Per sfuggire ai nazisti, i parigini scapparono in massa verso Sud, file di macchine con sopra «valigie, cappelliere, batterie di pentole e attaccapanni, bambole, casse di legno, bauli di ferro, cucce». Il gigantesco imbottigliamento di una nazione in svendita: «Il paese aveva inaugurato il più grande mercatino delle pulci della storia».
Pagine di irresistibile umorismo sono quelle in cui Lemaitre riporta il gossip (l’arma di propaganda più potente) che accompagna ogni guerra. Radio al soldo tedesco minavano il morale già sotto i tacchi dei poveri francesi con insinuazioni velenose: «Mentre siete mobilitati, gli imboscati rimasti nelle fabbriche vanno a letto con le vostre donne». Oppure vociferavano di francesi traditori che avevano ingegnosamente addestrato i loro cani ad abbaiare in alfabeto Morse per comunicare segretamente con il nemico. Intanto la controinformazione francese spifferava che: «Sebbene abbia fatto di tutto per nasconderlo, Hitler è omosessuale, ha adescato numerosi ragazzi per soddisfare le sue fantasie e nessuno ha più saputo che fine abbiano fatto».
Mi sono tenuto per ultimo Désiré Migault, il personaggio più importante. Genio, santo, truffatore, pilota, avvocato e parroco miracolato (la Bibbia che portava sul petto deviò un proiettile diretto al suo cuore), Désiré è un incrocio tra il DiCaprio di Prova a prendermi e lo Zelig di Woody Allen. Sarà lui a riannodare tutti i fili nel ricamo finale di questo romanzo larger than life. Lo farà con una solenne predica sull’Esodo in una cappella sconsacrata al cospetto dei nazisti, evocando il Mar Rosso che si spalanca davanti a Mosé e al suo popolo in fuga dal crudele faraone (leggi Hitler). 
Lo specchio delle nostre miserie è il libro dei libri sulla Francia che la Francia non aveva ancora saputo scrivere. E racconta la storia di un inseguimento (tutti inseguono e tutti sono inseguiti), l’altro tipo di storia (oltre a quella della bella donna in pericolo) che vale la pena di raccontare secondo Hitchcock. Un altro giro di whisky e di vodka, Monsieur Lemaitre?