Corriere della Sera, 20 maggio 2020
In morte di Alberto Alesina
Francesco Giavazzi, Corriere della Sera
Indomabile era la passione di Alberto per la montagna: per i ghiacciai dell’Alaska e per la roccia dura grigia del suo Monte Bianco, che contrapponeva con tagliente ironia alle «colline» dolomitiche. Indomabile era la passione per la ricerca, che lo portò ad aprire sempre nuove vie, e ad uscire dai sentieri già battuti. «Se vogliamo che l’economia come disciplina sopravviva – diceva – dobbiamo estenderne le frontiere all’ambito della storia, della sociologia, senza temerne il confronto». Testarda la sua ossessione per le pareti di vetro contro le quali si scontrano le vite e il lavoro delle donne.
L’ ultimo capitolo de «L’Italia fatta in casa» (Mondadori 2009) scritto qualche anno fa con Andrea Ichino, confronta una sera nella casa di una famiglia italiana e di una americana. Poche pagine che valgono molti trattati sull’eguaglianza di genere.
E poi testardo cercava l’origine di questi fenomeni. «La fertilità e l’aratro» un articolo scritto con Paola Giuliano e Nathan Nunn e pubblicato sull’«American Economic Review» nel 2011 cerca evidenza a favore dell’ipotesi che diversi atteggiamenti verso il ruolo delle donne nella società riflettano differenze nelle tecniche agricole utilizzate alcune migliaia di anni fa. Nelle società in cui la coltivazione della terra utilizzava la zappa, le donne partecipavano attivamente all’attività produttiva. Invece, dove si usavano tecniche di coltivazione intensiva, che utilizza l’aratro, il lavoro agricolo richiede molta forza e quindi è riservato all’uomo. In queste società gli uomini tendono a specializzarsi in agricoltura e le donne nella produzione domestica. Una differenza che è sopravvissuta secoli e secoli dopo.
Nella sua straordinaria vitalità si interrogava sulle società multi-etniche e sul loro destino. «L’immigrazione farà scoppiare l’Europa» scrisse in un capitolo di Goodbye Europa (Rizzoli 2006) almeno un decennio prima che iniziassero ad arrivare i barconi dall’Africa del Nord. Una linea di ricerca che sviluppò negli anni mostrando come l’aumento della diversità etnica fosse negativamente correlato con i livelli di fiducia, il capitale sociale, la qualità dei governi e il supporto dei cittadini alle politiche redistributive.
Indomabili erano la sua curiosità e il suo intuito. Una curiosità per le dinamiche della società e per la sua storia. Curiosità verso la vita delle persone che gli erano vicine, studenti, colleghi, amici, che si trattasse di economia, di fisica, di scienze cognitive. La curiosità delle persone intelligenti, che non smettono mai di ascoltare e di imparare. Fu questa la qualità che fece di lui un maestro e un mentore per cosi tanti studenti e studentesse che oggi si sono fermati, attoniti, in silenzio. Studenti molti dei quali sono diventati negli anni collaboratori e colleghi, perché Alberto, sebbene solitario e taciturno, fu, nel lavoro un collaboratore insaziabile.
Infinita la sua umanità. Alberto era una persona rara in cui intelligenza e lucidità di pensiero si incontrano con un’impietosa auto-ironia. Solo verso la stupidità e la banalità era insofferente, spesso sprezzante.
Come tutte le persone intelligenti era sempre pronto ad ammettere i suoi errori. Quante volte, dop o una mail scontrosa, molto succinta, in risposta ad una mia affermazione d’acchito ritenuta sciocca, lo chiamavo e gli spiegavo perché secondo me sbagliava. La ruvidezza della mail lasciava il posto all’intelligenza, e se contrapponevi un buon argomento la conversazione si concludeva, Hai ragione tu. Un dialogo ininterrotto da trent’anni.
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Roberto Perotti, la Repubblica
C’è un Alberto Alesina studioso, ma non parlerò dei suoi contributi scientifici, se non per dire che quasi certamente avrebbe vinto il premio Nobel: che altro aggiungere? E poi ci sono gli Alberto Alesina intellettuale, comunicatore, provocatore, mentore, amico. Parlerò di quelli, lasciando per ultimo il più importante, l’amico.
Pensare ad Alberto è associarlo all’espressione "curiosità intellettuale". Un vulcano di idee e di interessi, ma senza mai cadere nel rischio della superficialità: un equilibrio difficile e rarissimo. Alberto voleva capire il mondo intorno a lui. Ecco perché Alberto è stato un pensatore così versatile e originale, che ha aperto interi campi praticamente da solo: si faceva mille domande, e non gli importava niente delle risposte prevalenti. Se per caso le trovava convincenti bene; altrimenti andava avanti per la sua strada. Era lo stereotipo della mente inquisitiva, originale e indipendente.
Ma anche tremendamente concreta. Alberto aveva in orrore le speculazioni metafisiche di tanti economisti, i modelli fine a se stessi, la ricerca di soluzioni a problemi inesistenti, usare il cannone per ammazzare una zanzara; il suo punto di partenza e di arrivo era sempre un problema concreto che richiedeva una risposta nuova. E questo lo portava a confrontarsi con i dati, senza pietà né per sé né per gli altri: sapeva che senza dati i discorsi degli economisti sono chiacchiere. Così come ricercava il confronto con tutti gli scienziati sociali, anche al di fuori dell’economia, con i tecnici, con i politici: altra dote rara tra gli economisti.
Molto semplicemente, Alberto aveva un entusiasmo contagioso per investigare il mondo che ci circonda, per convincere gli altri che ognuno dei tanti fenomeni che lo appassionavano valeva la pena di essere investigato. Ed è per questo che è uno degli economisti più citati al mondo.
Una mente così non poteva rintanarsi nell’accademia, aveva bisogno di comunicare il suo entusiasmo a un pubblico di non specialisti. Tutti conoscono l’Alberto che partecipa al dibattito italiano insieme a Francesco Giavazzi. Un Alberto battagliero e dalle salde opinioni: quello che aveva da dire lo diceva. Ed era quasi sempre una prospettiva fresca, nuova, un contributo genuino al dibattito, detto in modo chiaro, senza circonlocuzioni. Certo, quando si gettano tanti sassi nello stagno l’acqua schizza un po’ ovunque: ed a tutti i suoi amici, me compreso, è capitato di essere in disaccordo con lui. Ma quanto più noioso è lo stagno dei tanti che scrivono senza avere nulla da dire.
Alberto fu uno dei miei supervisori per la tesi di dottorato (anche se io ero al Mit e lui a Harvard, accettò di prendermi per la tesi). Come tutti gli studenti in cerca di una idea originale ero perso, semplicemente perso, da mesi. Mi invitò per un pranzo ad Harvard Square; e gli esposi a voce (cosa che ora detesto nei miei studenti) una idea sciocca, appena abbozzata e probabilmente incomprensibile. Mi ascoltò, annuì ripetutamente, e dimostrò un entusiasmo inaspettato. Al momento ero convinto che fosse una finzione per incoraggiarmi, il frutto della sua innata gentilezza d’animo; ma con il tempo compresi che c’era anche un entusiasmo genuino – il suo solito entusiasmo contagioso - perché aveva visto un’idea potenzialmente interessante in un pasticcio da studentello. Divenne la mia tesi.
Perché Alberto dava fiducia; personalmente so per certo che senza le sue iniezioni di fiducia, durante e dopo il dottorato, non avrei fatto la carriera accademica, e credo che lo stesso possano dire molti altri. Prima che finissi il dottorato eravamo diventati veri amici. Un’amicizia poi rinsaldata da lunghe telefonate tra Boston e New York, dove ero andato ad insegnare e dove veniva spesso a visitarmi per le nostre collaborazioni; ma sempre pronto a mandare all’aria mezzo pomeriggio di lavoro per parlare un po’ di tutto.
Fui uno dei suoi primi studenti; dopo di me ne sono arrivati a dozzine, tutti contagiati dalla sua inesauribile voglia di comprendere, stimolati dalle sue idee di cui non era mai geloso, sostenuti con una parola, un sorriso, un invito a pranzo, e quando necessario, un "discorsetto" dove gli aspetti accademici erano l’ultimo degli argomenti.
Perché la parte più importante e contagiosa di Alberto inizia qui. È il suo calore umano, la sua voglia genuina di sapere come stavano le tante persone cui voleva bene, la sua capacità di entrare in punta dei piedi, ma anche in profondità, nella vita degli altri, quel suo credere commovente nel valore dell’amicizia. La sua passione per la montagna e la neve. Il suo candore, la sua mancanza di schermi sociali, il suo tenersi alla larga dai salotti buoni. La sua devozione profonda, pura e riconoscente a sua moglie Susan. La sua allegria, la sua empatia, i suoi slanci, così come i suoi tormenti interiori, che non esibiva ma che neanche si sforzava di nascondere ai suoi amici più intimi. Ed anche in questo, come in tutto il resto, era la sua grandezza.