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 2020  maggio 20 Mercoledì calendario

I soldati italiani in Africa al servizio di Parigi

L’abbiamo già sentita più di una volta, questa storia: è la famosa dottrina detta «lotta al terrorismo», madre di errori, di delitti e di rare, pericolose vittorie. La più recente, in cui stiamo per infilarci anche noi italiani, si chiama con nome in codice «takuba», ovvero la guerra francese per tenersi nelle transalpine saccocce il Sahel. Un luogo fuori mano, orribile e grandioso come certi paesaggi infernali disegnati da Gustavo Doré. 
Inesistente, come spesso accade in questo Paese, l’attenzione alle scelte di politica internazionale; si segue come i ciechi incespicanti di Brügel. Alla penombra contribuisce la pratica, di furbizia paesana, di presentare sempre le spedizioni all’estero con accenti pudicamente minimalisti, umanitari, da protezione civile: addestramento di sgangherate polizie, ospedali da difendere. Nel caso elicotteri e forze speciali servirebbero al soccorso dei feriti sul campo di battaglia. Una croce rossa con le mitragliere, insomma. Ma quelli sono i Paesi dei migranti, ricorda qualcuno. Appunto, si risponde, così li aiutiamo a stare a casa loro. 
Meglio dirlo subito. La guerra che si combatte in quei luoghi, Niger, Burkina Faso, Mali, e di cui diventeremo automaticamente complici di fronte alle popolazioni che la subiscono, è una guerra francese di pacificazione coloniale, un mosaico di feroci conflitti locali: odi tra contadini e nomadi, avversioni tribali, lotte zoologiche per l’acqua, poveri contro meno poveri, sazi e digiuni, ignudi e vestiti. I jihadisti ci sguazzano, ne sono diventati una parte, si cuciono addosso queste rivalità, ci gettano sopra il frettoloso mantello di dio. A commettere atrocità, per liquidare oppositori o etnie scomode, ovviamente dietro le spicce necessità della guerra al jihadismo, sono anche i corrotti governi, infeudati alla Francia, che andiamo a puntellare. Esempio: il Burkina Faso. Chissà se a Roma sanno che è diventato un luogo di esecuzioni di civili sepolti in frettolose fosse comuni nella sabbia, jihadisti del tutto presunti trovati sulla pista con i polsi legati, corpi crivellati dalla mitraglia, senza processo, senza accuse? I militari, i nostri alleati, regolano i conti con i peul, pastori nomadi di pelle chiara come i tuareg, altre vittime designate. La Sicurezza diventa indiscriminata mattanza: già visto, ahimè. Chissà se alla Farnesina hanno mai sentito parlare dei peul, delle loro mandrie di vacche moribonde, dei loro buffi cappelli di paglia. I jihadisti del Sahara, grazie alla miseria, eterno reclutatore, hanno fatto proseliti tra loro. Certo non di massa. Ma qual è il rapporto causa-effetto? Le «conversioni» vengono prima o dopo i soprusi e le violenze subite? Enigma delicato. E decisivo. 
Attraversiamo allora questa zona del Sahel dove l’antiterrorismo è diventato una rendita finanziaria e diplomatica per regimi putridi, false indipendenze che saccheggiano i propri popoli sotto l’occhio benevolo della République, eterno padrone di tutto, politica economia, sicurezza. Lasciamo per favore le capitali dove si fermano le visite dei nostri presidenti e ministri degli Esteri, incantati dai sorrisoni di pittoreschi leader locali in boubou. Sarebbe imbarazzante verificare le loro biografie di democratici impresentabili: elezioni truffaldine, clan dediti al saccheggio, conti in banca alimentati con gli aiuti allo sviluppo, contributi europei per fermare i migranti, per modernizzare gli eserciti contro la jihad. Sì, anche quelli rubano. 
Via dai quartieri ricchi dove finiscono le verzure, l’aria condizionata le ambasciate e le banche grandi come cattedrali, ovviamente tutte «per lo sviluppo». Superiamo periferie interminabili di baracche e capanne dove vecchi dagli occhi lacrimosi e bambini in cenci ci osservano, muti, come guardiani dei morti. Il fiume Niger resta indietro, sembra vacillare su tratti di sabbie chiare, tenendo accanto a sé il verde e la vita. Ci attende un panorama elementare, uno schema di pianori più o meno livellati, sterminate sequenze dell’immane sterrato desertico. Poi si alzano, salendo verso Nord, cordoni di ciglioni rocciosi sempre più alti, montagne buone per scene da giudizio finale, ornate solo di pietre e di cespugli di coriacee piante miserande, coperte di polvere, si direbbe appese a una morte perenne. La solcano piste deserte, lo punteggiano villaggi abbandonati che sembrano aver spento gli occhi.
L’ultima versione di Al-Qaeda
La guerra la affronteremo qui: l’aria presto rovente, che pare decomporre corpi e anime. Il luccichio grigio salino delle pietraie è vertiginoso, si ha l’impressione di procedere a piccoli vortici di argento vivo. Cosa sono quelle sagome che brillano per poi improvvisamente sparire e poi rifarsi più visibili e minacciose? Pick up dello stato islamico del Grande Sahara? O trafficanti di droga in viaggio verso Nord? Migranti in disperato cabotaggio? O una colonna dei cercatori d’oro che corrono verso Tchibarakaten e il mito della ricchezza: un chilo di metallo che a Dubai è venduto per 40 mila euro, loro che vivono in un Paese dove il salario è di 45 euro. Nessun drone ti può aiutare in questa immensità. Bisogna andare a vedere. Il luccichio guizza via, impicciolisce, si perde in una risacca di polvere. 
La guerra sporca del Sahel: peul tuareg dogon massacri squadre di autodifesa eserciti stracciati e feroci come predoni trafficanti che hanno in tasca il Corano e anche l’adesione al «Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani», ultima reincarnazione di Al-Qaeda nel Sahara. 
Percepisci lo squallore di un Paese in guerra, una infezione così grave che sembra corrompere la terra e privarla di colore e di suoni. Questo non è un campo di battaglia, semmai un posto dove si commettono omicidi, eccessi di vendetta, traffici sudici. La Francia è qui perché si sente padrona, l’ultimo posto al mondo dove ancora non si sente un Paesucolo di pensionati, aziende decotte e gilet gialli. L’Africa è nostra, allons enfants!
Qui non comandano Hollande o Macron o i diplomatici del Quai d’Orsay. Questa è proprietà dei generali, quelli che napoleone chiamava «les muratiens», tutto braveria e niente testa, che vedono il mondo come una caserma un po’ più grande. I generali amano le idee semplici, si ispirano ai romanzetti di Laterguy. Che molte rivolte nel cortile saheliano nascondano non le fumerie degli odiatori jihadisti ma soprattutto le macerie eloquenti del malgoverno non interessa. Guerra totale e un po’ di aiuti, qualche pozzo scavato qua e là, una infermeria affidata ovviamente non a quei pasticcioni della cooperazione ma ai militari: il soldato che cura un bambino, perfetto per la copertina di Paris Match. La Francia qui difende le sue illusioni. Ma noi?