La Stampa, 20 maggio 2020
Il bambino dai nervi d’acciaio che beffò l’orso
C’è qualcosa di incredibile e atavico insieme nell’incontro con un orso grigio, qualcosa che ci avvicina a quel mondo naturale da cui ci stiamo irreversibilmente distanziando e che sembra soffrire la nostra aggressiva presenza su tutto il pianeta. Di incredibile, perché non si risolve in una cattura o in un colpo di fucile (gli orsi li abbiamo sterminati per secoli) e di atavico perché ci fa recuperare la nostra radice comune legata all’evoluzione della vita sulla Terra. Forse avremmo potuto consigliare al genitore di non riprendere la scena col bambino protagonista: sarebbe stato meglio farlo entrambi più protetti. E forse si poteva evitare di riprenderla del tutto.
Ci sono ricordi che non hanno bisogno dell’alienazione dell’obbiettivo e nessuno ti potrà levare quello che hai vissuto. Ma non molti ci avrebbe creduto, così non avremmo avuto modo di ripetere quello che sosteniamo da anni a proposito di Daniza e di Papillon e cioè che la convivenza con gli orsi non è solo possibile, ma anche auspicabile e che noi sapiens abbiamo solo da guadagnare da un recupero del mondo naturale attorno a noi.
A una prima visione l’orso appare minaccioso, come se inseguisse il bambino. Ma è molto lento, con il suo caratteristico modo di procedere apparentemente distratto, caracollante: non ci sono atteggiamenti aggressivi e non è impaurito. Gli orsi hanno imparato a essere quasi invisibili, dopo secoli di stermini, e spesso si muovono all’alba o sviluppano abitudini notturne. Non so per quale ragione qualcuno li considera grandi carnivori, visto che oltre il 70% della loro dieta è vegetale e che gli insetti o i pesci sono spesso i pasti preferiti. In America del Nord gli sono state attribuite aggressioni e uccisioni, ma soprattutto come scusa per sterminarlo: esattamente lo stesso processo culturale che attribuiva malvagità di ogni tipo agli indiani, un mezzo per conquistare territori e popolazioni. Era un compagno di strada, lo abbiamo trasformato in un nemico. Buono semmai per essere rappresentato sugli stemmi degli Stati (la California o la città di Berlino), o osservato in un documentario in cui tutto è già scritto o tenuto dietro le sbarre di una gabbia in uno zoo. Tutto fuorché conviverci in natura.
A un certo punto l’orso si alza sulle zampe posteriori, prima per un momento e poi più a lungo. Anche questo non è affatto un atteggiamento minaccioso, lo fa solo per annusare bene attorno e rendersi conto di cosa ha davanti, definire il territorio, non avendo una vista particolarmente penetrante. E’ uno spettacolo straordinario e il bambino se ne rende perfettamente conto, invogliando il padre a riprenderlo, non solo per mostrare il proprio coraggio, ma anche, se posso azzardare, per una ragione più profonda, perché a quell’età sei ancora parte di quel mondo che poi dimenticherai in una vita cittadina priva di contatti con la natura selvaggia. E’ quel mondo primordiale che ti richiama e ti affascina, e tu lo senti prima ancora di capirlo. In questo incontro l’orso non è il disneiano Baloo, non è un amico dei sapiens, ma non è neppure la belva feroce che va catturata o eliminata: è semplicemente un orso che svolge tranquillo la sua vita. E lo fa accanto al mondo artificiale degli uomini. Ma anche il bambino, a parte il telefono, non è un sapiens supertecnologico a caccia di emozioni forti, ma un vivente fra i viventi, parte di un mondo che stiamo allontanando, ma che è ancora in grado di insegnarci molte cose. Per esempio, che, se sei vigile e conosci il mondo naturale, i pericoli sono limitati e la convivenza non è solo possibile, ma necessaria. E che non esiste una piramide della vita di cui noi costituiamo il vertice, ma solo un inestricabile cespuglio di cui facciamo parte esattamente come gli altri.