la Repubblica, 25 maggio 2020
Taiwan e la sfida fra Trump e Xi
Per gli Stati Uniti non c’è una sola Cina, ma almeno due, forse tre o quattro. E un giorno non lontanissimo potrebbero essere molte di più. La Cina scadrebbe a terra spartita fra locali signori della guerra e loro sponsor stranieri, come nel lungo secolo dell’umiliazione – 1839-1949, dalle guerre dell’oppio al trionfo di Mao. Washington potrebbe torreggiare sul mondo avendo liquidato l’unico sfidante. Fine dello psicodramma del declino americano.
Questo è l’end state della partita con Pechino, l’obiettivo finale cui lavora da quarant’anni l’Office of Net Assessment, laboratorio strategico del Pentagono. Trump e Biden, suo non sveglissimo sfidante democratico (a meno di sorprese), concordano.
La retorica della “Cina unica”, convenzione diplomatica internazionale inventata da Stati Uniti e Repubblica Popolare nel 1992, è ormai sterile per Washington. Non viene rinnegata, ma aggirata, con somma irritazione di Pechino. Casa Bianca, Congresso, Pentagono e agenzie d’intelligence impugnano Taiwan quale grimaldello con cui scardinare la Repubblica Popolare. Trattando l’isola come di fatto indipendente, anche se le vecchie intese sino-americane impediscono per ora di riconoscerla tale. Seconda Cina, diplomaticamente inesistente, contro la Prima, riconosciuta ma combattuta da nemico principale. Repubblica democratica e filo-americana, modello per i manifestanti di Hong Kong, cui gli apparati Usa sommano i separatisti uiguri del Xinjiang – Terza e Quarta Cina. Un filo rosso, su cui batte la propaganda americana, lega le Cine che non sono di Xi.
Per Pechino Taiwan è sua. Di nome oggi, di fatto domani. L’isola è la pietra di paragone della competizione sino-americana. Se entro il 2049 sarà inglobata dalla Repubblica Popolare, con le buone o le cattive, la sconfitta americana sarà totale. Irrecuperabile. In caso contrario, la Cina comunista sarà seppellita senza onori.
Alcuni recenti episodi confermano che Washington s’è tolta i guanti per picchiare duro. Con la semantica protocollare, quando il segretario di Stato Pompeo si congratula con Tsai Ing-Wen, rieletta alla presidenza della Repubblica di Cina (Taiwan), definendola “presidente” – cioè capo di Stato. Con la violenza della rappresaglia economica, annunciando che la Taiwan Seminconductor Manufacturing (leader mondiale) aprirà una fabbrica in Arizona, intanto vietando la vendita dei suoi semiconduttori a Pechino. Huawei e il suo 5G sono sotto attacco.
A Taiwan crescono in parallelo diffidenza verso Pechino e allineamento con Washington. Tsai parla di dialogo su base “paritaria” con Xi Jinping – voluta provocazione. La maggior parte dei taiwanesi non si sente cinese e preferisce l’America alla Cina continentale. Frutto anche della minacciosa quanto maldestra campagna anti-taiwanese accentuata negli ultimi tempi da Pechino, cui insieme alla rivolta di Hong Kong Tsai deve la rielezione, un anno fa per niente scontata. La presidente prepara la revisione della costituzione, in vista della futura dichiarazione d’indipendenza. Non proclamabile oggi, perché ne deriverebbe il conflitto armato fra Pechino e Taipei, cui Washington non potrebbe sottrarsi.
La pressione americana ha aperto un pubblico dibattito a Pechino. Influenti strateghi, tra cui il generale Qiao Liang, invitano ad abbandonare le minacce di invasione militare e a risolvere la questione di Taiwan nell’ambito di un negoziato finale con Washington. Così internazionalizzando un tema che Pechino considera domestico. Nulla è più scontato, su un fronte come nell’altro. Salvo che la sfida sino-americana si deciderà a Taiwan.