Linkiesta, 25 maggio 2020
Su André Leon Talley, ex braccio destro di Anna Wintour
Quando Bruce Springsteen pubblicò quella canzone in cui diceva che, dopo una certa età, la gente racconta solo dei propri trascorsi glory days, io avevo undici anni e mezzo, e non avevo la più pallida idea di che cosa stesse parlando (poi la cantavo lo stesso, perché se le canzonette bisognasse capirle per canticchiarle Mogol avrebbe fatto un altro mestiere).
Adesso che ho quarantasette anni e mezzo, conosco alla perfezione il meccanismo: Glory Days parla di André Leon Talley, ma soprattutto di me.
Era un pomeriggio newyorkese, mancavano cinque giorni al mio trentaseiesimo compleanno e tre settimane al giorno in cui un uomo nero sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti, e un italiano che vive a Manhattan mi aveva dato appuntamento al Sant Ambroeus, succursale al Village della pasticceria milanese (puoi togliere l’italiano dalla provincia italiana, ma non puoi convincerlo a non cercare locali italiani dovunque si trovi nel mondo).
Arrivai puntuale (una vita ad aspettare), entrai, e la prima cosa che vidi fu l’uomo nero più amato dalle modaiole, André Leon Talley. Era con una qualche attrice, ma proprio non riesco a ricordare chi. Ricordo però benissimo che erano seduti al tavolo tondo: quelli fighi li siedono al tavolo tondo; noialtri mortali ci siedono sempre in un tavolino zoppo davanti alla porta del cesso.
Ricordo anche com’ero vestita: un McQueen che adesso mi entrerebbe forse come polsino, delle scarpe di Prada delle quali un paio d’anni dopo mi si spezzò il tacco mentre salivo su un palcoscenico per fare un discorso – ma non distogliamoci coi molti giorni d’imbarazzo da questo glory day.
Dunque: entro, noto ALT, noto che il mio appuntamento non c’è, esco ad aspettarlo.
Dopo un po’ arriva, ed entriamo. Ed è allora che ALT ci ferma e ci dice che sono fabulous, mi ha notata anche prima, il vestito, le scarpe. Balbetto qualcosa, cercando di non svenire. Il mio accompagnatore, un intellettuale che non ha mai sfogliato Vogue in vita sua, e che vede solo un signore nero con abiti molto colorati, mi guarda con un certo stupore: «Non ti ho mai vista così emozionata».
Passo il resto del pomeriggio a istruirlo sull’imprescindibile figura di André Leon Talley, braccio destro di Anna Wintour, leggendaria figura di socialite sociopatico (si dice che casa sua sia bellissima, ma nessuno ci è mai entrato), incarnazione fisica di quel modo di dire americano che è larger than life.
Era impossibile non notarlo alle sfilate: più alto d’un giocatore di basket, più largo d’alcune porte, sempre con favolosi caftani su misura (i grassi del mondo della moda si distinguono dai grassi di provincia perché non optano mai per qualcosa che sfini e li faccia sembrare un etto meno; si buttano sempre sui colori e sul farsi notare il più possibile: se hai una debolezza, fanne una forza).
Lui e Anna Wintour – minuta, mai fragorosa – formavano un contrasto perfetto. Anche se adesso lui giura che i suoi problemi di peso (è una vita che entra ed esce dalle cliniche per dimagrire) non fossero un modo di occupare sempre più spazio mentre la sua capa ne occupava pochissimo (e tuttavia lo occupava tutto).
Adesso ALT ha scritto un’autobiografia sulla trincea di chiffon in cui ha combattuto per decenni, prima che Anna lo facesse fuori da Vogue. “The Chiffon Trenches” è uscito negli Stati Uniti da meno d’una settimana, ma sono mesi che i giornali americani intervistano l’autore, e sembrano tutte interviste fatte in un’altra epoca.
Sono interviste in cui non c’è il nodo della questione, cioè che i Talley del mondo sono un capriccio di budget, un vezzo per decenni di vacche grasse, il relitto d’un secolo finito. Adesso che il numero appena uscito di Vogue America è bimestrale, perché gli inserzionisti non avevano comprato abbastanza pagine pubblicitarie per rendere sensata la pubblicazione d’un numero di giugno e uno di luglio.
Adesso che, tra uno stilista e l’altro, Vogue ha le pubblicità dei medicinali, come un tabloid qualunque, e le foto che le celebrità si sono fatte a casa, come un giornaletto di provincia.
Adesso che Anna Wintour pubblica proprie foto in quarantena in – le fan di lungo corso svengono alla sola idea – tuta da ginnastica. Adesso che «siamo l’élite» non è più un posizionamento di mercato accettabile, bisogna dire «siamo come voi».
Dice ALT che quando Anna lo sostituì nell’ultima cosa che era suo territorio, le interviste sul tappeto rosso all’annuale festa dell’Istituto del Costume al Metropolitan Museum, al suo posto mise una ragazzina che non sapeva cosa fosse una martingala, e non si può che annuire dolenti: è importante trattare con competenza le frivolezze, non è che di moda possano parlare tutti e d’astrofisica no.
Però.
Però la cosa più dirompente Talley la fece, ventiquattro anni fa, per l’edizione americana di Vanity Fair. Era un servizio concepito e scritto da lui, e fotografato da Karl Lagerfeld (si erano conosciuti nel ’75, quando KL disegnava Chloé e lasciava che le indossatrici scegliessero con quale degli abiti sfilare – un’anarchia inconcepibile – e ALT veniva mandato a intervistarlo da un certo Andy Warhol, che all’epoca dirigeva il mensile Interview).
Vanity Fair 1996, dicevo. Naomi Campbell posava come Rossella O’Hara. Se la padrona dei campi di cotone era nera, gli schiavi erano bianchi. C’erano, a interpretare la servitù della piantagione, John Galliano e Manolo Blahnik; c’era persino, col suo bravo turbante, Gianfranco Ferré che interpretava la governante, Mammy (cui un Rhett nero offriva da bere dopo la nascita della figlia: erano stati filologici, a modo loro).
È cambiato tutto, da quel servizio, non solo il fatto che Naomi Campell posò venticinquenne e ora ne ha appena compiuti cinquanta. È cambiata l’economia, soprattutto. La moda non è più il luogo del boom, così benestante da permettersi di prendersi in giro; è un luogo in contrazione, che ha paura della propria ombra e non può che prendersi sul serio: è la prima cosa che fai, prenderti sul serio, quando hai paura («La moda è un divertimento, non la si può prendere sul serio, dev’essere integralmente frivola», gli aveva detto Lagerfeld in quel primo incontro del ’75. Aveva ragione, ma era un secolo fa).
ALT dice che era diventato troppo vecchio e grasso, e lo dice chiaramente pensando a Gloria Swanson (quella di Viale del tramonto, quella «sono ancora grande, sono i film che sono diventati piccoli»), e forse ha persino ragione. Ma lo sa anche lui che non sono solo i suoi glory days a essere finiti: sono i tempi che sono cambiati; e infatti questo secondo memoir (il primo uscì nel 2003) la butta sulla razza, tema sensibile in tempi di politiche identitarie: carica l’aspetto del ragazzo nero che ce la fa, il primo uomo nero che diventa potente in un sistema, la moda, dominato dalle donne bianche.
Il primo uomo nero cui, anche senza prenotazione, dessero il tavolo tondo.