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 2020  maggio 25 Lunedì calendario

Intervista a Linus

Intervistare Linus è come giocare a tennis con uno molto più forte di te, dopo pochi secondi che ti risponde credi di essere in grado di condurre con lui una diretta radiofonica. Pensi di aver imparato finalmente il maledetto diritto, di poter competere per i preliminari di Wimbledon, e invece ti stavi solamente appoggiando al colpo perfetto del compagno. Così con Linus: è lui a condurti senza un’esitazione, senza sbagliare una parola, ovviamente dove vuole. Lo ascolti da talmente tanti anni – 44 per la precisione – che lo immagini come il deejay eterno, la voce che ti accompagnerà per sempre. Per questo, quando apprendi che il suo quarto libro Fino a quando origina dall’immagine definitiva dell’”ultimo giorno al microfono”, fatichi a credere che non sia solo un espediente narrativo.
Ma Pasquale Da Molfetta, in arte Linus, classe ’57, specie umana Peter Pan, non è l’artista che millanta vite non sue, anche questo trapela dalla voce, ma un “professionista che ama la disciplina”. Un deejay “dal carattere contenuto e composto”, che pochi anni dopo il “topico” ’76, quando “grazie al suo compagno di classe” iniziò a smanettare con le prime radio nate solo l’anno prima, diventa presto “un po’ imprenditore” di un piccolo network. “Mi facevo un culo pazzesco ma guadagnavo tanto, quando andai a Radio Deejay dovetti rinunciare a metà di quanto prendevo”.
A cavallo tra l’83 e l’84, altro snodo della carriera. “Era una radio completamente diversa dalle altre, che avevano tutte più o meno lo stesso clichè. C’erano pochi speaker, no musica italiana, solo musica inglese che in quegli anni impazzava”. Gruppi sconosciuti ai millennial che stanno leggendo – presumibilmente ancora chiusi a casa, ma ne parleremo dopo – la new wave degli Human League, Depeche Mode, degli Spandau... centomila gruppi, in qualche caso spariti”.
Quello che non sparisce, fino a quando sei al microfono, è la voce. “La musica per me ha sempre avuto un ruolo importante, lo ha ancora adesso, ma nel mio modo di vedere in radio la centralità ce l’ha sempre la parola. Ho sempre amato prima quello che diceva lo speaker. Anche perché è quello che lo rende non rimpiazzabile da un sito di streaming”. Insomma, con Spotify puoi ascoltare tutta la musica del mondo, “ma se vuoi ascoltare me, se vuoi ascoltare Savino, il mio ‘reagente che mi fa uscire il lato più leggero’, se vuoi ascoltare La Pina o Fabio Volo... devi ascoltare Deejay o un’altra radio”. Per non sparire, devi però anche saper cambiare. “Io sono cambiato tantissimo. Lo switch è avvenuto nel ‘94-95 quando sono diventato direttore. Fino ad allora ero un soldatino, facevo la radio in maniera molto basica anche perché nei primi anni ‘90 si faceva così, le radio private alla fine erano un po’ acqua fresca, non era che ci fosse molto contenuto. Poi da direttore è quasi come mi fossi liberato”.
Autorizzato a fare e dire qualcosa in più, Linus si inventa la conduzione in coppia, prende la parola per comunicare e non per riempire lo spazio tra un pezzo e l’altro, cambia natura. “Il Linus dei primi venti anni è un buon professionista ma tutto sommato abbastanza trasparente, quello di adesso ha una sua dignità e una sua personalità”.

Qui per forza di cose, si arriva al pozzo nero, che lo ha prima inghiottito e da cui è uscito con l’idea dell’’autobiografia radiofonica’. Comunque non una biografia, “sarebbe stato da arroganti, non sono Agassi o Vasco Rossi. Solo un libro che dovrebbe insegnare che la perseveranza è utile”.
“L’anno scorso ho passato un’estate terribile, ho avuto un po’ di tensioni, poi superate, all’interno della radio, fare il fratello maggiore di un gruppo di matti non è semplicissimo. Subito dopo ho subito un cavolo di intervento alla schiena che mi ha obbligato a stare fermo e da solo per tre mesi”.
Esercizio, nel suo, per chi è abituato al pieno h24, anche interessante.
“Sai, ho un modo di far la radio che racconta molto di me e quindi viene fuori un’immagine tutto sommato molto glam, è un po’ come quando metti la tua immagine su Instagram, mica la metti di quando piangi, o di quando litighi con i tuoi figli. Invece la vita di una persona è fatta anche di momenti complicati, che per fortuna, riesci anche a superare. Uno comincia a pensare a cosa esiste al di fuori del suo orizzonte abituale”.
Una quarantena in anticipo di un anno, “un’ottantena. Ho un po’ di pudore a confessarlo perché c’è gente che ha sofferto tanto, ma ho vissuto questi ultimi due mesi con un equilibrio che mi ha fatto stare bene. Ho fatto il programma tutti i giorni, e per farlo uscivo di casa la mattina e tornavo a casa per pranzo. Tutto molto easy. È stato un lunghissimo week end”.
A proposito di week end, Radio Deejay è stata anche cultura del divertimento, dalla mitica Aquafan di Riccione alla Festa lunga un giorno nella ex area Expo con trentamila persone, compleanno dell’emittente, “che avremmo rifatto tra una ventina di giorni, ma che purtroppo per quest’anno dovremmo lasciar perdere”.
Quest’anno no a vie di mezzo, in questa fase è impossibile coniugare festa di massa e sicurezza, anzi “abbastanza velleitario pensare che si possa fare, un evento è bello se si riesce a mettere tanta gente totalmente libera di divertirsi. L’idea di avere tanta gente nello stesso posto, però distanziata, con la mascherina, a cui dire come comportarsi, non mi piace. Se devo fare una cosa come quella, piuttosto non la faccio”.
Organizzati o meno, ripartire e darsi al divertimento sembra comunque difficile. Passata, speriamo, la paura della pandemia, intere generazioni sembrano non riuscire a superare la sindrome della tana.
“Mi colpisce molto la parte più giovane, vedo che i ragazzini, i miei figli, i loro amici, stanno facendo un po’ fatica a uscire dal guscio. È come se si fossero impigriti, mi trovo nella condizione anche un po’ assurda di dire al più piccolo: ’ma non vai a trovare il tuo amico? Adesso lo puoi fare, prendi il motorino e vai’. Lui mi risponde: ‘sì boh domani’. Vedo che stanno uscendo con una certa prudenza”.
Capiamo che stiamo rischiando di scadere nel sociologismo facile, ma chi più di un deejay ha anche il sentiment di un Paese? Linus prova ad abbozzare dei motivi.
“La tecnologia gli ha permesso di mantenere comunque un po’ il contatto. Già era un po’ cosi anche prima. Quante volte abbiamo visto in un parchetto cinque ragazzini seduti sulle panchine e tutti con la testa bassa sul telefonino senza parlare tra di loro. Probabilmente questo è stato semplicemente il passo successivo. Hanno continuato a farlo dalla cameretta. I contatti virtuali sono continuati, forse li hanno un pochino implementati e allargati, tra playstation online, interrogazioni online… le loro finestre le hanno sempre tenute aperte. Incentivati a farlo prima, ora che devono recuperare il contatto fisico non è che ne abbiano tantissima voglia”.
A contrasto con chi si prende del tempo – parentesi necessaria: Linus dell’arte del temporeggiare prima di lasciare il nido ne sa qualcosa, è rimasto a casa dei suoi fino a 29 anni, economisti autorevoli lo definirebbero un ‘bamboccione’, “sì, confermo e me ne vergogno un po’, ma prima si faceva così” – c’è il famigerato mondo dell’aperitivo.
“Di giovani o di finti giovani, non dei 18enni ma dei 35-40enni che se lo possono permettere e che non si rassegnano a mollare il ruolo di vitelloni, termine che li fotografa perfettamente, di eterni bambinoni che tutte le sere devono avere una birra in mano, secondo me i più pericolosi in questo momento, che sembra non gliene freghi niente di quello che è successo”.
Esaurita la digressione necessaria, si torna a Fino a quando, alla ‘quarta intervista in un giorno’ per lanciare il libro Mondadori, una ’piacevole faticaccia’ ora che è anche ’superdirettore galattico’ delle radio Gedi, “È arrivato tutto insieme, le giornate sono piene, ma io preferisco così”. Si torna al libro che è anche un po’ esorcismo della fine, fortunatamente non così vicina. “Mai stato così felice di quello che faccio come in questo momento, mi dovrete sopportare per molti anni ancora”.
Ultima domanda per prepararsi comunque: di cosa Linus avrebbe veramente paura l’ultimo giorno davanti al microfono?
“Mi mancherà la disciplina, è un termine che nella mia vita torna sempre fuori, ma a me piace questa cosa, io ho una giornata organizzata in modo quasi militaresco. So che alle dieci di mattina devo accendere il microfono e avere qualcosa di diverso da dire”. Cose preparate nelle 24 ore prima, “quando durante la giornata succede qualcosa, me le segno sul telefonino, poi all’indomani mi sveglio leggo i giornali, più l’Huffington (meno male, ndr) e il Post che i tradizionali, cerco un taglio da dare alle notizie”.
La fine di fare radio somiglia molto alla fine del palinsesto esistenziale.
“Sarà un po’ quello che mi succede d’estate. Io arrivo stanco come tutti al mese di agosto e con la voglia di stare in vacanza, poi puntualmente leggo il giornale e dico: ’ah cazzo, ma io di questa notizia, se fossi in onda adesso, pensa quante cose potrei dire di questo argomento!’ Non avere più il famoso balcone da cui affacciarmi è una cosa che mi mancherebbe tantissimo”.