La Lettura, 24 maggio 2020
Mai dire parolacce al supereroe Kobe
Gli atleti del basket Nba si ispirano apertamente ai supereroi Marvel (non solo fisicamente). Il loro copione proviene da quella mitologia. Kobe Bryant è stato l’ultimo di questi supereroi. Dal giorno della sua tragica fine (26 gennaio 2020) The Mamba Mentality(nel senso del serpente velenoso) è fisso in classifica. Il libro (bellissime fotografie agonistiche di Andrew D. Bernstein chiosate da Kobe) è molte cose assieme. È un manuale tecnico: si tira con il pollice e l’indice, non con tutta la mano (se hai, ovviamente, il superpollice e superindice di Kobe). È un breviario dove le preghiere sono gli allenamenti (a partire dalle 5 del mattino fino a mezzanotte, l’ora della classica spaghettata per la gente normale). È un trattato di filosofia esistenziale (se hai un sogno di grandezza, fanne la tua ossessione; come diceva Truman Capote: «Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è predisposta unicamente all’autoflagellazione»). Ora il libro è diventato il suo testamento. E si legge con commozione. Ma anche con divertimento come quando spiega che un’arma impropria e usatissima nel gioco è il trash talking, dire parolacce agli avversari per mortificarli. Con il Mamba non funzionava perché, al contrario, il trash talking lo eccitava (come capita a letto tra amanti). Il campione dice che ha imparato molto da Muhammad Ali. Si riferisce al rope-a-dope: sfruttare la forza dell’avversario per usarla contro di lui. Da noi lo faceva Gigi Riva, che, per certi versi, è stato il Cassius Clay italiano. Kobe scrive che in una squadra di basket i ruoli sono come i caratteri di un dramma: c’è il fratello maggiore, l’intellettuale, lo zio simpatico. Guardate l’appassionante serie The Last Dance su Michael Jordan, il primo supereroe Nba, e capirete che è così. Oggi le rappresentazioni teatrali più vere (più elisabettiane) sono quelle dello sport. P.S. Però una parola sulla sua Calabria Kobe poteva scriverla.