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 2020  maggio 24 Domenica calendario

Sugli scritti di Edmondo Berselli

Gli scritti di Edmondo Berselli sono prima di tutto un godimento; ognuno può aggiungervi l’aggettivo che più desidera: estetico, politologico, antropologico, poco importa. Importa il piacere, l’immergersi in una scrittura ben temperata, dalle radici così salde da permettersi ogni svolazzo. Cabaret Italia (Mondadori) raccoglie il meglio degli articoli che Berselli ha scritto per «la Repubblica» e «l’Espresso», più vari inediti. La sua bravura più rara e sottile (dimostrata in libri fondamentali come Il più mancino dei tiri, Canzoni, Venerati maestri, Adulti con riserva, Sinistrati) sta nel tracciare itinerari diversi nati da suggestioni, da associazioni di idee e di non idee, da rimandi dall’uno all’altro argomento, dalle connessioni più o meno immediate all’interno di ciò che si manifesta come «cultura contemporanea».
Ad aprire l’antologia c’è un’autobiografia inedita che getta una luce corrusca sul modo d’intendere il giornalismo «culturale»: «Non ho mai fatto uno scoop, credo. Il mio mestiere è provare a interpretare la realtà contemporanea cercando di vederla fuori dagli schemi. Quando su “la Repubblica” ho descritto la politica italiana come un format, e mi sono accorto che tutta l’Italia che vive di informazione ne parlava, be’, mi son detto: “Berselli, come te ce ne sono pochi”. Ma poi ho riacceso il computer e ho ripreso a scrivere: non è vero che ogni commento o ogni articolo deve essere geniale per forza. Il giornalismo è un lavoro, è assiduità. Si migliora scrivendo, non distillando rari concetti dall’empireo di un lessico illuminato dalla divina ragione. A me piacciono gli scoop intellettuali: vedere quello che gli altri non hanno visto. Dev’essere stato Goethe che ha detto: il genio è la capacità di vedere l’ovvio».

Questa raccolta rappresenta una sorta di autoritratto intellettuale e ci restituisce, in tutta la loro attualità, alcuni tra i suoi più straordinari interventi. Il calcio, l’Emilia, il reality, il Festival di Sanremo, Massimo D’Alema («è la figura che riassume la vocazione governativa del vecchio Pci») e Walter Veltroni («il buonista machiavellico»), Kennedy e il Dr House, Beppe Grillo («La Francia ha avuto de Gaulle e noi Grillo»), la plastica, il Mulino Bianco, la questione morale... Per non parlare dei consigli sullo scrivere («l’italiano deve essere corretto. Cioè senza errori di ortografia e di grammatica, sulla sintassi siamo tolleranti. Poche parole straniere, se non servono. Poche citazioni latine, tanto vengono spesso sbagliate. Poi se uno è brillante, gli concediamo tutto. L’importante è farsi capire. Se si è anche divertenti, eccitanti, eccetera, tanto meglio»), dell’identità della televisione («se non c’è più confine fra generi, nessuna barriera fra realtà e intrattenimento, e di fatto tra spettacolo e spettatori, risulterà sempre più difficile resistere all’asserzione estremistica che tutta la televisione cosiddetta generalista è solo ed esclusivamente intrattenimento»), della fenomenologia del contemporaneo («[sappiamo]quanto sia irriducibilmente vero lo schema paradossale del filosofo del pessimismo cosmico, Arthur Schopenhauer: “Ogni nuova verità passa per tre fasi. All’inizio si tende a ridicolizzarla. Poi la si attacca violentemente. Infine, la si dà per certa”. A occhio, oggi dovremmo essere prossimi all’ultima fase»).
Si direbbe che ogni argomento che alimenta il «dibattito pubblico» e il cicaleccio da social venga scompigliato da questi lunghi corsivi (Berselli non si atteggiava a saggio né riteneva che i giornali potessero ospitare saggi). Così, il lettore ritroverà, o scoprirà con delizia, testi che affrontano questioni su cui l’attenzione non è meno rovente di quanto lo fossero nei giorni della stesura. Con un’avvertenza fondamentale: Berselli è l’opposto di quella figura oggi straripante nei giornali e in televisione che va sotto il nome di «opinionista». Essere opinionista una volta era una prerogativa, adesso è un mestiere. Mestiere, s’intende, a cottimo. È il terziario che è avanzato (in tutti i sensi). Nei dibattiti, nei talk serve sempre la presenza di un incendiario che alimenti il fuoco della contesa: su cose che normalmente non interessano, con pareri irrilevanti. Fa parte del gioco, perché l’opinione fonda la sua retorica sulla frase fatta.
Non così per Berselli, che la tv sembra conoscerla molto bene: «Soprattutto, almeno negli ultimi venti-venticinque anni, ossia da quando l’offerta televisiva è cresciuta in modo esponenziale in tutte le democrazie sviluppate, la tv ha imposto uno stile nello “stare in pubblico”. E questo stile si è affermato come l’unico stile possibile: il sorriso inevitabilmente smagliante, il dinamismo veemente à la Sarkò, l’ovvietà rilasciata sulla linea di minore resistenza con il gusto generale, in modo da fare scattare la claque automatica dell’ovvio: “Straordinario”. Senza parlare dei “tempi” tv, per cui oggi qualunque discorso superiore al minuto “non è televisivo” (si richiedono invece come qualità essenziali le doti di sintesi, la capacità di ridimensionare a slogan ogni ragionamento complesso, eliminando qualsiasi sfumatura e portando all’apogeo la sintassi “paratattica”, cioè costruita senza subordinate, senza ipotetiche, senza digressioni: tutte proposizioni principali, sostenute da congiunzioni “tattiche”, anche sgrammaticate)».
La maschera che più lo ha caratterizzato è stata quella dell’«adulto con riserva». I libri importanti, gli studi, le discipline assimilate le ha sempre tenute rigorosamente nascoste (la cultura, è stato detto, è quel che resta quando tutto è stato dimenticato), ma gli hanno permesso di entrare nel cuore della cultura popolare, di elevare a oggetto di studio ciò che credevamo superfluo, una riflessione senza barriere protettive. Come quando scrive di Altan: «Un tipo misteriosamente fuori moda, Altan, che però riesce a essere perfettamente puntuale, praticamente medianico, con tutto ciò che è moderno, con il famoso nuovo che avanza, riesce a intuirlo, a fissarlo con gli spilli del sarcasmo, e tuttavia a comprenderlo sino in fondo. Nel ripercorrere il suo ampio catalogo di vignette di questi trent’anni si capisce che ha una visione davvero antimoderna, dove la società è divisa in classi, e la classe operaia ha il pregio antico di avere grande consapevolezza di sé, come potrebbe dire un filosofo d’altri tempi, facciamo un Lukács, e del fatto di prenderlo costantemente, come direbbe invece lui Altan, nel didietro».

Berselli non amava lo scontro delle civiltà e delle ideologie: preferiva farle ibridare, auspicava forme di cooperazione, immaginava mondi retti dal wishful thinking, dal «treno dei desideri». Sapeva benissimo, per averlo sostenuto più volte, che valeva la pena di prendere atto, almeno sul piano intellettuale, che la storia non si era conclusa (la post storia è solo un nuovo capitolo), che la filosofia e le scienze umane erano ancora alle prese con fratture non ricomposte e non meccanicamente ricomponibili. Così ogni manifestazione del moderno, ogni esempio delle sue schizofrenie e delle sue fratture diventavano altrettanti luoghi da cui scrutare il nostro mondo per ricavarne qualche riflessione «senza enfasi eppure con accresciuta sicurezza, sulle continue scelte richieste dall’alternativa fra la ragione e l’antiragione».
Basta rileggere che cosa scrive della plastica (e che cosa ne scriverebbe ora, che è tornata necessità!): «Con il Moplen, il nome commerciale del polipropilene di Giulio Natta, cominciano in tutti i sensi i nostri anni di plastica. Bentornati nel passato: ci troviamo nel pieno degli anni Cinquanta, decennio vituperato, dominato secondo la vulgata dal disprezzo democristiano di Mario Scelba per il “culturame”. Ma sotto la cappa clericale deplorata dagli intellettuali di punta vicini al Pci e dai cineasti progressisti, e dopo che Giulio Andreotti aveva criticato il neorealismo di De Sica e Zavattini perché i panni sporchi si lavano in casa, bisogna anche provare a guardare sotto la superficie, osservando la società italiana con una buona lente. Anni di plastica vuol dire una nazione che ha imboccato la via verso la modernizzazione. Un po’ a casaccio, ma l’ha imboccata».
Il travestimento dell’«adulto con riserva» gli è poi servito per conciliare pensiero forte e pensiero debole, con una propensione per il cabaret intellettuale, ma soprattutto per non imbastire teorie generali; piuttosto per scoprire allegorie in un frammento di vita, per diffidare di ogni razionalismo. E per tenere viva una memoria fuori del comune, per coltivare quello spazio dove le cose accadono per la seconda volta.
Già, la memoria. Quella di Berselli era formidabile ma era anche il suo principale strumento di conoscenza. La memoria va alimentata – diceva – perché, con il tempo, le cose cambiano: «È un principio dell’ermeneutica: cambia chi legge, cambia chi ascolta, cambia il punto di vista e quindi cambia anche il testo». Il suo eclettismo consisteva proprio in questo: scoprire in mezzo alle cose la forza silenziosa dell’evidenza e, forse, dietro a un sorriso, un vibrante senso del tragico.
Una sola idea forte ha accompagnato quasi tutti gli scritti di Berselli. L’idea è che l’atmosfera degli anni Sessanta, il «sogno» di quel decennio, abbia illuminato di una luce diversa anche i decenni successivi. Per questo, non può fare a meno di commentare un discorso di papa Ratzinger sul tanto evocato Sessantotto, con il suo carico di pesantezza ideologica: «A fine luglio (2007, ndr), Benedetto XVI aveva qualificato il Sessantotto come “una fase di crisi nella cultura in Occidente”. Certamente, ha più titoli e strumenti il papa a censurare il “relativismo intellettuale e morale del Sessantotto”, di quanti non ne abbia Sarkozy. La fides è in antitesi con la secolarizzazione innescata dal Sessantotto, la ratio è un antidoto all’irrazionalismo dell’“immaginazione al potere”. Se ora la crisi apertasi quarant’anni fa si richiude, qui nei confini domestici ci saranno molti sospiri di sollievo: anche se non è detto che sia un gran vantaggio veder tramontare i vecchi sogni della rivoluzione e della rivolta, per ritrovarsi nel proliferare caotico, catodico e internettiano dell’antipolitica».

Chi era Berselli? Un tuttologo che si applicava a problemi complessi, come a volte gli capitava di scherzare su di sé? Era uno capace di sottrarre l’attualità al livellamento forzato in cui si trovava e rituffarla in una complessità che sapeva essere, al tempo stesso, ilare e accigliata.