La Lettura, 24 maggio 2020
Le recensioni-tipo? La ricetta di Manganelli
La recensione-tipo è un minestrone di ortaggi anemici e indigesti – tratti biografici, intreccio, personaggi – condito da sentenze sommarie spacciate per verità irrefutabili: nel migliore dei casi ispirate dal gusto individuale, nel peggiore da pregiudizi politici, strampalate teorie estetiche, generalizzazioni sapienziali; il tutto filtrato dalla disposizione d’animo del recensore nei confronti del recensito, della vita e dell’umanità.
Ahimè, una perniciosa coazione progressista ha ridotto la recensione a descrizione empirica: mero strumento informativo ad uso del lettore volenteroso e perbene. Che sciocchezza. La recensione è un’arte la cui minorità è sancita dall’esiguo spazio a disposizione. Esercizio di stile gratuito, autonomo, doverosamente succinto, la recensione sta al saggio critico come il racconto al romanzo: per statuto ostili a mediocrità e norma, recensioni e racconti pretendono da chi se ne serve eccellenza ed essenzialità. Per condensare un mondo in una paginetta o due, occorrono doti orientali di stringatezza, precisione e fantasia. Ed ecco perché le recensioni riuscite appaiono preziose e un po’ astratte come miniature giapponesi.
Tali mi sono parse quelle sfrenatamente compilate da Giorgio Manganelli, ora raccolte in Concupiscenza libraria (aspettiamo famelici l’annunciato secondo volume). Ispirato da una musa onnivora, edonista e poliglotta, Manganelli ha saputo elevare l’arte del recensire all’empireo della sublimità artistica. Questi ingemmati bonsai manganelliani – stipati a dozzine in un ponderoso volume tiepido e umido come una serra, così ben curato dal solito impeccabile Salvatore Silvano Nigro – danno quasi le vertigini. È come avere accesso illimitato a un harem libresco, a un bibliografico giardino dell’Eden.
Perché non sfruttare questo ben di dio per tracciare – s’intende, senza crederci troppo – un vademecum del provetto recensore?
1) Il recensore non è uno snob. Se lo snobismo, nell’accezione corriva, è un atteggiamento settario, il lettore professionista – nel suo pantagruelico ecumenismo – è un sincero democratico; o se preferite, uno di quei gran signori che amano il popolo senza demagogia. La sua curiosità indagatrice viene sollecitata in egual misura da romanzi, sillogi poetiche, poemi epici, saggi eruditi, classici del pensiero, polizieschi da edicola, racconti fantascientifici e persino libri di colleghi più giovani e meno affermati.
2) Il recensore non ama mettersi in mostra, rifugge toni auto-celebrativi e oracolari. Come una volta scrisse Proust a Gide: «Io credo, caro amico, che si può avere un alto concetto della letteratura e al tempo stesso vederla con sorriso e bonomia». A Manganelli non mancava né il sorriso né la bonomia, e Dio solo sa se amava la letteratura.
3) Quando proprio non può evitalo, il recensore parla di sé con sprezzatura e per interposta persona: «Forse Meneghello mi è congeniale, oltre che per la fonetica del cognome, proprio perché abbiamo abitato, ignorandoci, certe squisite dimore: quei saggisti del Settecento, quei narratori dell’Ottocento e anche recenti maestri, piccoli maestri dell’understatement, dell’elusione, del dire e non dire, della buona educazione nel cuore della tragedia che è il colmo dell’umorismo».
4) Ciò non di meno il recensore sa di avere una piccola parte in commedia; un ruolo gregario, per certi versi assimilabile a quello del maggiordomo: formale, cerimonioso e invisibile. Chiamato a definire il nucleo della propria missione, ama ricorrere all’antica arte dell’auto-svalutazione: «Se un recensore ha una coscienza, e più genericamente dei doveri – e di ciò si può agevolmente dubitare – io non dovrei consentirmi di leggere e recensire Chesterton; uno Stato bene ordinato dovrebbe censurarmi e forse sottopormi a indagine giudiziaria. Chesterton è qualcosa di diverso da uno scrittore: è una sorta di zio, un bizzarro zio che sa raccontare storie incredibili, che dice sciocchezze piene di una strana saggezza infantile, che non sgrida, non educa, ed eccita come solo uno zio può fare».
5) Il recensore dispone di una sola cartuccia interpretativa. Deve scegliere, scremare, puntare sul cavallo giusto. Niente è più insidioso dell’anelito alla completezza ermeneutica: scegliere un argomento significa escluderne mille altri.
6) Il recensore, a dispetto del cattedratico, non va matto per le citazioni. Se le circostanze lo impongono se ne avvale, di norma evita. Bisognerà anche comprenderlo: il recensito ha avuto un intero libro per esprimersi, è ora che lasci spazio al suo interprete.
7) Il recensore è un po’ matto, e la sua lucidissima follia si nutre di ipotesi strampalate come questa: «Se Stevenson avesse studiato teologia in una tetra facoltà di Edimburgo, se Hawthorne avesse coltivato caffè nel Kenia, e frequentato, oltre che Roma, Elsinore – bene, le cose andarono molto diversamente, e toccò a Karen Blixen unire nel paradosso della sua intelligenza mistificatrice e rigorosa, sillogistica e magica, di saldare memorie africane, danesi, italiane, e disporle secondo un occulto disegno, una storia di visione insieme drammatica ed ironica; un gioco che è impossibile distinguere dalla cerimonia».
8) Il recensore diserta i sentieri battuti. Poniamo che il libro di uno scrittore di grido sia ritenuto dalla critica ufficiale e accademica il prototipo del Great American Novel. Ebbene, sarà cura del buon recensore non dare credito a certe pompose sciocchezze messianiche, e indirizzare altrove la sua ricerca. È il trattamento riservato a Le avventure di Augie March: lasciando tra parentesi rabbini e gangster, Manganelli identifica il vero modello di Bellow nel novel settecentesco.
9) Il recensore appaga la sua fame di accostamenti e comparazioni inventandone di sana pianta di più freschi e imprevedibili: «Spesso Balzac è stato discusso accanto a Dickens; a me verrebbe naturale proporre la vertiginosa fratellanza di un Dostoevskij. Con il narratore russo ha in comune la capacità di sedurre grazie all’angoscia».
10) Il recensore fonda la sua autorità sugli aggettivi: tali forme grammaticali accessorie e ripugnanti, se ben usate, possono rendere gustoso anche il sostantivo più anonimo. Nell’arte di aggettivare, Manganelli non ha rivali. Lui sfrutta la potenza semantica dell’attributo con tale spregiudicatezza da stravolgerne deliberatamente il senso, in tal modo arricchendolo: «L’affettuoso mormorio del nulla», «un prestigio imponente quanto arduo», «una sorta di sgarbata indulgenza».
11) Una cosa è certa: il recensore non è un uomo risentito. Ama il suo lavoro, e nutre un enorme rispetto per quello degli altri. La stroncatura può essere divertente (sia per chi la scrive sia per chi la legge, un po’ meno per chi la subisce), non se diventa norma o maniera: la smania censoria, la bava alla bocca, l’indignazione spesso dicono più cose sulla grettezza dello stroncatore che sull’oggetto dei suoi strali biliosi. «Al letterato spettano in primo luogo obblighi di stile: odio e disprezzo, sentimenti del tutto naturali in una sana intelligenza letteraria, vogliono buone letture e periodi impeccabili». Personalmente, conosco pochi scrittori che abbiano saputo destare con la grazia e il brio di Giorgio Manganelli: «Cassola è il tipo che non ride nemmeno al proprio funerale».