La Lettura, 24 maggio 2020
Indagine sull’universo dei giocattoli
In ogni uomo autentico si nasconde un bambino che vuole giocare. Lo ha detto Friedrich Nietzsche in Così parlò Zarathustra, che tutto è tranne che un tutorial ludico. Perché giocare ha solo in apparenza a che fare con lo spasso, lo svago, l’assenza di responsabilità. Invece è forse la cosa più seria che l’uomo abbia mai inventato. Lo racconta un bel libro di Vincenzo Capuano edito da Mursia, Giocattologia. L’autore, che insegna Storia del giocattolo all’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa, ha le idee molto chiare. Anche il più semplice dei giochi, come la trottola e perfino il tappo di una gassosa, ci dice chi siamo stati e che cosa siamo diventati. Ogni oggetto va letto alla luce dell’epoca in cui è stato creato, pensato, usato, tramandato.
Capuano non si limita a ricostruire l’evoluzione dei giochi, ma racconta i contesti antropologici e sociali nei quali sono stati pensati e amati, consumati e detestati, salvati e restaurati per essere messi in mano alle nuove generazioni. Li legge come geroglifici di mentalità passate o presenti, non come semplici trastulli o strumenti pedagogici. Per questo il libro è avvincente. D’altra parte, nasce da una passione lunga una vita, che si è presto trasformata in collezionismo. Non a caso quando il regista Saverio Costanzo ha girato la prima puntata della serie tv L’amica geniale, tratta dal bestseller di Elena Ferrante, si è rivolto a lui perché gli procurasse le bambole di Lila e Lenù. Le due protagoniste infatti passano ore a cullare due pupe di pezza di seconda mano, ereditate come un manuale di maternage dalle loro mamme e nonne. E Capuano le ha estratte dalla sua collezione di oltre cinquemila esemplari. Perché lui ama la storia sociale, quella con le ginocchia sporche e i gomiti consumati, e non snobba i giochi dei proletari.
Insomma, se – come dice lo storico Johan Huizinga – c’è una matrice ludica in ogni azione dell’uomo, allora in ogni giocattolo possiamo rintracciare lo spirito di un’epoca, il suo modo di pensare, di proiettarsi nel futuro. E soprattutto possiamo decodificare l’idea di infanzia che ha orientato i creatori di giochi. Basti pensare alla differenza tra il giocattolo antico e quello della società di massa. Il primo aveva lo scopo di educare e intrattenere. Era un totem con il quale identificarsi. Il giocattolo prodotto dal consumismo è invece uno strumento che specializza la fantasia e la spinge all’azione. Sviluppa soprattutto la ragion pratica. Si deve solo premere un pulsante, muovere una leva, impugnare una consolle. Il giocare si polverizza in una miriade di azioni distinte.
Capuano si comporta come un regista, taglia e monta i fotogrammi della storia, seguendo un filo narrativo coerente e al tempo stesso amplissimo. Da bambino si era improvvisato archeologo domestico, rovistava nel fondo dei cassetti per trovare oggetti dimenticati, che gli apparivano carichi di una storia remota, quasi magica. Crescendo e studiando, il docente napoletano si è presto reso conto che il giocattolo non è mai neutrale, innocente, né tantomeno innocuo. Basta pensare a come ha condizionato per secoli la costruzione dei generi maschile e femminile. Ma anche il modo in cui ha instillato valori come l’ordine, la disciplina, il successo, la competizione, la creatività. Così, da autentico «giocattologo», come ama definirsi, prende per mano il lettore e lo conduce in un percorso dettato dal logos. Tenendosi alla larga da quel pathos stucchevole che spesso si associa all’universo infantile.
Lo scrittore russo Vladimir Nabokov diceva che la parola «realtà» è l’unica che andrebbe scritta sempre fra virgolette, come dire che è impossibile definirla e fissarla, e persino essere sicuri che davvero sia la stessa per tutti. Per questo il gioco non è semplicemente una fuga dal reale, semmai è costruzione di una realtà ulteriore. Oggi diremmo aumentata. In questo senso Capuano è l’allievo di quel grande sociologo dei giochi che è stato Roger Caillois, per il quale il giocattolo è «essenza e matrice dell’esperienza e dell’esistenza umana».
Come mostra la storia secolare delle bambole. Che per i Greci e i Romani erano il simbolo della fanciullezza virginale. Tanto che al momento del matrimonio dovevano essere abbandonate. Nel Medioevo, invece, questi simulacri femminili perdono d’importanza, proprio come accade ai bambini che, immessi nel mondo del lavoro dalla più tenera età, non devono fingersi adulti, visto che lo diventano fin troppo presto. Dal Rinascimento in poi le dolls diventano giochi per le dame, che si specchiano nelle loro miniature e le vestono lussuosamente.
Nell’Inghilterra di Elisabetta I vengono obbligatoriamente battezzate con i nomi delle rampolle della royal family. E a Parigi nasce il celebre modello Pandora, di fatto un’adulta rimpicciolita, damascata e impennacchiata. La prima vera icona della moda. Così spocchiosa e odiosa che durante la Rivoluzione francese alle bambine giacobine vengono regalate ghigliottine affilatissime per decapitare le poupées requisite alle grandes dames. Da allora le bambole sono diventate bambolotti, lattanti bisognosi di cure. Fino a quando, nel 1956, la signora Mattel vede in una tabaccheria di Lucerna una bambolina sexy che la folgora. Una procace platinette di nome Lilli che si vende agli uomini in cerca di curve su cui posare occhi indiscreti. Acquistato il brevetto, la ribattezza Barbie ed è subito boom. Così la biondina diventa croce e delizia delle ragazze di tutto il mondo. Perché da bambina ti fa sognare di diventare come lei e da adulta ti fa dannare perché non sei come lei. Oggi in versione Hello ha conquistato il diritto di parola, che esercita grazie a un server californiano che risponde a qualsiasi domanda.
E se la bambola si è sempre collocata dalla parte delle bambine, a spingere un giocattolo fra le braccia dei maschietti ci ha pensato all’inizio del Novecento Margarete Steiff. Che prima di diventare la più grande imprenditrice europea del toy business era una sarta, costretta sulla sedia a rotelle dalla polio. È lei a cucire il peluche in grado di soddisfare quella voglia di tenerezza unisex che dorme in ciascuno di noi. Nasce così il primo orsetto della storia. Nasino all’insù e due bottoncini di legno al posto degli occhi.
Di fatto, sostiene Capuano, dobbiamo proprio a questa signora tedesca la prima grande rivoluzione di genere nel mondo ludico, perché ha abilmente sfruttato l’immagine forte dell’orso, bersaglio dei virilissimi cacciatori, per educare intere generazioni a una nuova sensibilità. Sdoganando la coccola al maschile. E aprendo, di fatto, la strada al primo giocattolo omo della storia, quel Gay Bob, a metà tra Paul Newman e Robert Redford, che vedrà la luce nel 1977. E se l’orsetto Steiff ha intenerito i cuori europei, a quelli americani ci ha pensato il Teddy Bear, l’orsacchiotto che viene battezzato con il nickname del presidente americano Theodore Roosevelt perché nel 1902 si era rifiutato di sparare a un cucciolo d’orso. Un gesto di pietà che decreta il successo degli orsetti. Una fortuna che raggiunge l’apice negli anni Cinquanta, quando diventa una hit di Elvis, che canta alla sua bella Let me be your Teddy Bear. Con tanti saluti al maschio alfa. Un controcanto al virilismo militaresco che inchiodava i maschi a fuciletti e carri armati.
Ma il secolo breve è testimone anche di un altro cambio di paradigma. Impresso dall’arrivo sul mercato di Pinocchio. Pensato per il sesso forte, viene adottato a sorpresa dalle bambine. Che si sbarazzano di biberon e passeggini, ed eleggono il celebre burattino a giocattolo del cuore. Così l’incorreggibile e volitivo birbante di fatto ha rottamato i vecchi cliché educativi. Bugiardo e infingardo, furfante e disobbediente, ma sempre e solo per amore della libertà. Che non ha genere.