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 2020  maggio 24 Domenica calendario

Vedere Shakespeare in streaming

Tra i tanti Shakespeare che i teatri del Commonwealth hanno messo a disposizione degli spettatori in streaming il caso ha accostato tre titoli che hanno qualcosa, e più di qualcosa, in comune. Parlo di Sogno di una notte di mezza estate, de La dodicesima notte e de Il racconto d’inverno. Avrei voluto vederli (e riferirne) nell’ordine stabilito dal canone. Così non è stato possibile. Per primo ho visto Il racconto d’inverno, sicuramente tra i meno rappresentati in Italia.
Ricordo una sola edizione recente, una riscrittura di Pau Miró ed Enrico Ianniello messa in scena dall’eccellente regista napoletano Francesco Saponaro. La libertà, se così vogliamo chiamarla, di quella riscrittura aveva un elemento centrale nel dipingere il carattere del re di Sicilia, Leonte, come un soggetto più credulone e sciocco che puramente geloso, ai limiti della paranoia, come in Shakespeare ci appare. Tutto diverso, è giusto precisarlo, da Otello. A Otello sono giunte voci, Otello ha creduto in chi credeva di potersi fidare, in Otello era come ci fossero prove del tradimento di Desdemona.

A Leonte non accade nulla. Polissene è il suo migliore amico: re di Boemia lui e re di Sicilia Leonte, Polissene ne è da qualche tempo ospite. Ma all’improvviso Leonte comincia a credere che la venerata, casta, purissima Ermione, sua moglie, di Polissene sia l’amante. Non solo. Ermione ha un figlio, Mamillio, di 9 anni, e un altro ne attende. Per Leonte è istintivo pensare («il nostro irresistibile istinto») che il figlio ora nel grembo di Ermione sia di Polissene.
Il re di Boemia altro non può se non partire, tornare subito in patria. Cosa farà invece Leonte? Niente di meglio che scansare Ermione (metterla da parte, arrestarla) e assistere alla morte improvvisa di Mamillio. È a questo punto che meglio si chiarisce la così semplice scenografia dello spettacolo di Declan Donnellan. Prima non avevamo visto altro che un grande spazio vuoto, con l’eccezione di una cassapanca-sedile e della stessa posta in posizione verticale per la difesa di sé da parte di Ermione.
Ora si spalanca una quinta e vi scorgiamo un letto funebre, sul quale giace disteso Mamillio. Il colpo di scena è assoluto, è una visione triste, luttuosa oltre ogni limite. La commedia assume un tono diverso. Non è più una commedia, è una tragedia. Ma 16 anni dopo le cose di nuovo cambiano. Non siamo più in Sicilia, siamo in Boemia. La bimba che era appena venuta al mondo contraddicendo la volontà di Leonte è stata portata in salvo da Antigono che, in terra straniera, morirà sbranato da un orso. È quasi un ricordo di quelle parole che Mamillio aveva detto prima di morire. Egli aveva previsto di star vivendo (all’età sua, lui ragazzino) «una storia triste per l’inverno».
Ma prima di morire, il fedele ed eroico Antigono aveva visto Perdìta, una giovinetta adolescente: come non credere ch’ella fosse la figlia di Ermione? Di nuovo Il racconto d’inverno cambia direzione e tono. Accanto a Perdìta c’è Florizel, il figlio di Polissene: commedia, tragedia, di nuovo commedia.
Perdìta e Florizel si amano; Polissene chiede a Florizel di chi sia figlia quella incantevole giovinetta. Sarà il vagabondo Autolico, un ladruncolo di strada, a sciogliere i nodi. Egli porterà in Sicilia i due innamorati – e Polissene giustamente (istintivamente) li seguirà.
Cosa in Sicilia era frattanto accaduto? Leonte credeva che Ermione fosse morta. A causa delle chiacchiere di Paolina, quella donna di buonsenso e moglie di Camillo (un altro uomo suo fedele, che Leonte riteneva averlo tradito), noi credevamo che di Ermione esistesse una statua, eretta nientemeno che da Giulio Romano, di indicibile somiglianza alla persona viva. Ermione era invece Ermione, invecchiata di 16 anni, ma proprio lei, lei in persona. La tragedia che si era affacciata sulle spiagge di quella favolosa, fantastica Boemia, chiude in Sicilia gli scuri della finestra e la fine si ricongiunge all’inizio.
Mi fa piacere ricordare cosa ne scrisse nel 1817 William Hazlitt, il primo grande saggista inglese. Ermione si distingue «per la rassegnazione degna di una santa, e la paziente indulgenza, Paolina per le sue vivaci e zelanti proteste contro le ingiustizie commesse nei confronti della regina... Il ritorno di Ermione dal marito e dalla figlia è tanto toccante in sé quanto impressionante nella rappresentazione. Camillo, il vecchio pastore e suo figlio sono strumenti subalterni ma non privi di interesse per lo sviluppo della trama, e ultimo ma non meno importante, viene Autolico, una piacevolissima, vigorosa canaglia». Ma a noi massimamente interessa come oggi venga tutto ciò rappresentato: non solo direi da Donnellan ma nel teatro inglese nel suo insieme (siamo al Barbican).

Scrivemmo, parlando del Molière di Stéphane Braunschweig, che la modernità dei costumi non era prova della contemporaneità di Molière ma della persistenza dell’umano sentire (a dispetto di quanto ritiene un regista ingenuo come Milo Rau, che giudica come Molière, Shakespeare o Cechov scrivessero per il suo tempo, siano essi dunque inattuali se non inutili). Nel teatro inglese, mi sembra, le cose vanno in modo leggermente diverso che in quello francese. La recitazione, il modo di porsi degli attori è analogo: realistico e immediato. I costumi fino a un certo punto: Shakespeare non è Molière. I personaggi sono vestiti come siamo vestiti noi ma non tutti e non sempre. In Shakespeare, in questo Shakespeare, c’è l’elemento fantastico che non lo consente. Ci sono disegni i più stravaganti, colori sgargianti, musiche imprevedibili.
Tanto più, proprio le musiche, in La dodicesima notte. C’è la chitarra del buffone Feste e ci sono il jazz e il rock. Ci sono quelle due ripide scalinate poste a formare un angolo di sessanta o settanta gradi che girano su sé stesse perché la scena muti, ci sono quelle scritte luminose, come in un caffè lungo una strada del Wyoming, che nel quinto atto danno la luce necessaria perché gli enigmi si sciolgano. Gli enigmi? Davvero vogliamo chiamarli così? Ciò che in Shakespeare chiamiamo fantastico è il principio di una non formulata filosofia ma che qua e là ritorna: nel Sogno di una notte di mezza estate in modo flagrante, ne Il racconto d’invernoscherzoso e insinuante.
La regia di Simon Godwin (siamo al National Theatre) per i due gemelli Olivia e Sebastian ha scelto due meravigliosi attori di colore (Phoebe Fox e Daniel Ezra): facile e agevole è per lo spettatore vedere una somiglianza e quasi una indistinguibilità dei due gemelli. Ma ecco il punto, somiglianza e indistinguibilità servono tanto alla trama quanto alla sua significatività. Per ben due volte ci vengono dette frasi con la stessa chiarezza con cui Amleto dice «essere o non essere, questo è il problema». Le due frasi sono: la prima, di Viola, «io non sono quel che sono» (sta nascondendo la sua identità); la seconda, pronunciata come una sentenza da Feste, «niente di quello che è, è». 
Occorrono prove più esplicite del pensiero di Shakespeare? Non è il fondamento del pensiero umanistico che si affaccia nei teatri e sulla scena del mondo? Non è la relatività di tutto ciò che ci circonda, il suo indurci al sospetto permanente? L’Illiria in cui si svolge l’azione è proprio l’Illiria o è un Paese di pura, idilliaca fantasia? Non è questa Illiria uguale alla Sicilia di Leonte? L’unica differenza è che qui non c’è bisogno di un re. In Illiria regna l’anarchia. Non per nulla il personaggio memorabile è Malvolio, insignificante nella gerarchia sociale. E non per nulla il regista Godwin per la prima volta, che io sappia, nella storia della rappresentazione de La dodicesima notte fa diventare Malvolia quel così vanitoso e patetico personaggio: la commedia non ne subirà alcuna reale alterazione, ne sembrerà solo portata all’estremo. Alla lettera: estremizzata nel suo principio di fondo.
Uomo o donna non importa, come non importa distinguere Viola da Sebastian e persino Viola da Olivia (la padrona del palazzo e del suo giardino in cui si svolge l’azione), i nomi delle quali sono così simili – come simile è Ermione all’Ermia protagonista de Il sogno di una notte di mezza estate. Ne La dodicesima notte equivoco succede ad equivoco, agnizione ad agnizione, amore ad amore, amore reale ad amore strumentale.
Pure, al centro di tutto resta Malvolio, con la sua apparente altezzosità, la sua servilità, la sua prosopopea e, naturalmente, le sue calze gialle e le sue giarrettiere incrociate che è tanto sciocco da ritenere nei piaceri di Olivia.
Mai dimenticheremo la grazia e la stoltezza, l’eleganza e lo humor verso sé stesso di Romolo Valli nella remota edizione di cui Giorgio De Lullo era regista; ma ugualmente memorabile è Tamsin Greig, Malvolia, nello spettacolo del National, che scende le scale come fosse una star degli anni Quaranta, o la protagonista di un film di Howard Hawks: lucente e smorfiosa.
Un personaggio di quelli buffi di cui la commedia si nutre, sir Toby (lo nota ancora William Hazlitt) gli dirà: «Pensi che solo perché sei virtuoso, al mondo non debbano più esistere né dolci né birra?». 

Ma se vogliamo insistere ancora un momento sui costumi, vale a dire sul punto di vista iniziale di un regista di fronte all’opera che sta mettendo in scena, nel Sogno di una notte di mezza estate sarebbe arduo relativizzare ciò che è in sé stesso relativo, indefinito, indefinibile: niente più che un sogno – come quel lungo intermezzo che ne Il racconto d’inverno è così diverso dal resto della commedia. Non a caso Eric Rohmer nella sua unica prova per il teatro, Trio in mi bemolle, accosta Il sogno di una notte di mezza estate a Il racconto d’inverno, come intitolerà il primo dei film da lui dedicati alle quattro stagioni.
Nel Sogno la cosiddetta realtà non viene neppure sfiorata. Sono realtà la coppia iniziale, quella composta da Teseo ed Ippolita? Lo sono più delle altre tre che vediamo in scena? Volendo a tutti i costi distinguere, si potrebbe situare al limite opposto la coppia degli elfi, Oberon e Titania. Al centro ci sono Ermia e Lisandro, e Demetrio amato da Elena ma promesso sposo di Ermia – che tuttavia non lo vuole perché, appunto, ama Lisandro.
Massimiliano Civica, quando mise in scena il Sogno, annotò che la commedia «parla di matrimonio e del problema dei figli. Teseo e Ippolita si addormentano e sognano la vicenda di Oberon e Titania, in cui si immedesimano risolvendo al risveglio i propri problemi», in particolare il problema dei figli. «Non è un caso – diceva Civica – che Oberon e Titania discutano per un figlio sparito. Tutto fino alla frase conclusiva, affidata a Oberon: i figli che verranno concepiti quella notte saranno figli sani, senza quelle macchie e menomazioni che tanto preoccupano i genitori».
Civica riportava, almeno un poco, la commedia a un principio di realtà. È anche possibile. Tuttavia dominanti sono il bosco in cui si confonde l’azione, e la notte che oscura ogni parola e ogni gesto – quella notte di san Giovanni in cui il «sogno» accade: tanto lunga, o breve; come breve, o lunga, è la dodicesima notte, la «notte dell’Epifania».
Il principio di fondo, quasi una struttura, è lo stesso delle commedie che verranno (il Sogno di una notte di mezza estate è del 1595), un principio di disorientamento, di disguidi, di confusione – insomma di relatività. Ne Il racconto d’inverno è Feste delegato a sostenere quella che sarebbe stata la logica di Wittgenstein, «Ciò che è, è», «Cosa è mai ciò, se non ciò ed è se non è?». A, insomma, uguale ad A. Ma più avanti, sul piano dei contenuti, dell’aneddoto, A uguale a non-A. Viola è Viola, ma è anche il gemello di Sebastian; Olivia ama un uomo (Viola travestita da uomo) ma anche, propriamente, Viola, ossia una donna, il cui nome, come abbiamo osservato, non è così dissimile dal suo.
Nel Sogno, A è eguale a non-A per ragioni di potere (Teseo considera inesistenti i desideri di Ermia, da dove discende l’orrore per cui Demetrio è uguale a Lisandro) o per ragioni di magia o d’amore (Puck scambiando Lisandro per Demetrio non è agente di orrore, ma di un errore). L’allegoria rinascimentale, il romanzo cavalleresco, l’atmosfera ariostesca non sono più quasi nulla, si stanno dissolvendo, il Sogno è, come sempre in Shakespeare, una «trappola filosofica».
«Chi ama – scriveva nel 1947 un lettore dimenticato, Piero, fratello di Clemente Rebora – non è amato, chi è amato fugge l’amante, chi vorrebbe recitare una tragedia (Piramo e Tisbe) ci fa ridere, chi tenta di ragionare sragiona, persino Oberon e Titania si azzuffano per ripicche e gelosia, veramente indegni di monarchi, di elfi e di fate».
Nello spettacolo del Globe di Dunedin nella lontana ma oggi vicinissima Nuova Zelanda, il regista Dale Neill, da onesto artigiano, non geniale (di geniali nel teatro contemporaneo non vi sono che registe, Angélica Liddell o Katie Mitchell) accoglie in pieno ciò che Teseo dice alla fine: «Come trovare accordo in mezzo alla discordia?». Per Neill la lettera è quella, il fantastico è fantastico, perché vedervi filosofia? Come personaggi appartenenti, almeno un poco, al mondo della quotidianità del XVI secolo, Neill accoglie solo i carpentieri, i falegnami, i tessitori, gli stagnini: insomma la gente comune, le manovalanze. Noi che non lo ricordavamo c’eravamo stupiti all’inizio che Ermia fosse di così piccola statura. Ma anche questo particolare il regista lo prende alla lettera. Nella seconda scena del terzo atto Elena, che si reputa codarda, ai presenti, durante la lite con la rivale, dirà: «Forse voi, vedendola più bassa, pensate che le possa tenere testa». E in ultima analisi la scena stessa, così angusta, di così ridotto spazio (è stretta tra due più o meno alte gradinate), e con quel bosco solo accennato dalle luci e dalle ombre che tracciano i rami degli alberi, altro non è, deliberatamente, che la scelta, se si vuole riduttiva, ma a un principio fedele, di chiudere tutto in una scatola – come fosse un gioco, o una favola.