La Lettura, 24 maggio 2020
Quanto vale un malato come me?
Il Covid-19 è reale. Una simile dichiarazione, a prima vista ovvia, si impone come necessaria in società come le nostre, anestetizzate da manipolazioni, false promesse, mediocrità, impunità. Per quanto si provi, come si è fatto e si continua a fare, non è possibile occultare o rilasciare in base a determinati interessi le notizie dei danni e della devastazione causati dalla tragedia in cui siamo immersi; allo stesso modo le immagini delle bare in fila nella loro solitudine si sono incuneate nel nostro animo e hanno colpito le nostre coscienze. La portata della crisi è tale da fare vacillare ogni velleità di controllo delle classi dirigenti e la malattia, le cifre da conflitto bellico dei decessi, l’incapacità materiale e l’incompetenza, si disegnano nitidamente sullo sfondo.
La società civile, con i professionisti della sanità come portabandiera, risponde con solidarietà, impegno e dedizione encomiabili di cui non saremo mai abbastanza grati, e nonostante questo il cittadino ha paura, tanto più se chi affronta il virus trascina il fardello di una malattia pregressa o un’età avanzata. Quando la morte smette di essere un’eventualità remota, un imprevisto del futuro, e si trasforma in una variabile di cui tenere conto nel divenire quotidiano, le concause che possono contribuire ad accelerarla o renderla più complicata accrescono l’angoscia.
Tuttavia, se le circostanze naturali come il feroce attacco del virus sono di per sé un problema aggiunto per chi è malato o semplicemente ha ormai raggiunto la vecchiaia, le dimensioni del dramma ingigantiscono di fronte alla risposta delle autorità durante la crisi delle risorse ospedaliere. Posti di fronte al collasso del sistema sanitario, abbiamo assistito alla creazione di una gerarchia di accesso a risorse insufficienti, rappresentate in questa crisi dai posti letto in terapia intensiva e dalle relative apparecchiature. Per stabilire delle priorità e decidere a quale paziente dare il massimo delle cure disponibili, si è fatto ricorso all’elaborazione di guide, indicazioni o raccomandazioni, talora insultanti nella loro spietatezza, talora più sottili, ma di solito basate su due circostanze soggettive comuni: l’età, e qui i 75-80 anni si innalzano come una macabra asticella, e la comorbilità, ovvero la presenza precedente o simultanea di altre patologie. Altri fattori pertinenti al malato, come l’aspettativa di vita, parrebbero dipendere proprio da queste due circostanze principali.
È avvenuto così che noi malati o anziani, già sotto l’attacco dell’accresciuto rischio che per la nostra salute costituisce questo nuovo e mortale virus, spesso ci siamo visti negare anche l’accesso alle cure ospedaliere più importanti. Probabilmente la giustificazione più comune è che una situazione di crisi impone sempre una prioritarizzazione nell’utilizzo delle risorse quando queste si fanno limitate, che l’età non costituisce di per sé un criterio automatico, o persino che si tratta di situazioni già ampiamente indagate dal punto di vista etico, medico, assistenziale.
Si tratta di affermazioni che possono essere considerate corrette ma che necessitano perlomeno di alcune precisazioni.
La prima tesi, secondo la quale l’età non sarebbe un criterio automatico, si deve chiaramente confrontare con i tragici eventi che si sono verificati durante la pandemia, visto che nelle Rsa il virus ha fatto strage di anziani, mentre il numero dei decessi di coloro che non hanno avuto accesso nemmeno alle cure ospedaliere più elementari resta scandalosamente alto. Le scuse adducibili di fronte a tanta trascuratezza nell’accudire le persone più vulnerabili della nostra società saranno tante e varie e, con ogni probabilità, le responsabilità si perderanno nei mille rivoli scaturiti dal caos, la crisi, le carenze preesistenti e l’invocazione generica del determinismo. Ma la realtà non fa sconti e ci ricorderà che tutti quegli anziani non sono morti in strutture sanitarie adeguate ai loro bisogni.
Anche l’affermazione secondo cui situazioni come quella attuale sarebbero state già affrontate dal punto di vista bioetico risulta oggi difficile da accettare, giacché da quando è nata tale disciplina non si erano mai verificate, quanto meno nel mondo occidentale, crisi umanitarie come quella provocata dal Covid-19. Possiamo certo trovare nella letteratura specializzata numerosissimi riferimenti al contenimento delle terapie sugli anziani o sulle persone affette da determinate malattie, tuttavia tali riferimenti sono riconducibili a situazioni individuali e circostanziate. Troveremo anche studi e tesi riferibili alla cosiddetta medicina delle catastrofi, nel cui quadro le risorse entrano in sofferenza confrontandosi con calamità circoscritte; ma sarebbero io credo poco riferibili a un’ecatombe di questo genere che impatta sul sistema sanitario di interi Paesi costretti a chiudere le frontiere con i propri vicini e a contendersi materiali e attrezzature sanitarie per un lasso di tempo indefinito.
È questo dunque lo scenario cui hanno dovuto e devono fare fronte i nostri anziani e malati cronici: la nostra società, facendo propri i criteri e i parametri già citati, ha optato per il principio di utilità o, se lo preferiamo, per la massimizzazione del bene globale che a sua volta si traduce nei seguenti dettami etici:
1) salvare il massimo numero di vite possibile;
2) salvare il maggior numero possibile di anni di vita;
3) dare la precedenza a coloro che hanno alle spalle un ciclo di vita più breve.
Nel caso di anziani e malati, tuttavia, si dovrebbero tenere in conto due possibili eccezioni ai criteri sopra descritti, una di natura prettamente morale, integrata da elementi valoriali, l’altra di taglio prevalentemente utilitaristico.
Prima di tutto il concetto di vita, per coloro che raggiungono una certa età o che soffrono di gravi malattie, cambia moltissimo rispetto a quello di coloro che si sentono estranei a queste circostanze, come diversa è la loro prospettiva temporale. Un momento è infinito, e due infiniti o un milione di infiniti non sono comunque superiori a quel singolo momento. Le aspettative della maggior parte di anziani e malati è costituita proprio da una preziosa sequenza di momenti, di giorni. La gioia, la speranza, la soddisfazione, la comprensione, l’amore, sono tutti valori esclusi dai criteri di selezione delle persone la cui vita potrà essere salvata in una congiuntura di risorse limitate.
Un mese di felicità circondati dall’amore dei propri cari per una persona anziana vale meno del futuro contingente di un giovane?
Oppure.
La speranza di una nuova cura per chi è malato vale meno delle aspettative esistenziali di un individuo di mezza età?
Analizzando la situazione da un punto di vista strettamente materiale, poi, vediamo che la vita, il cui valore dovrebbe essere assoluto, viene relativizzata dal diritto preposto a difenderla in situazioni di crisi come quella attuale. Se così succede per ragioni pragmatiche, a causa della mera limitazione di mezzi e risorse, bisognerebbe allora chiedersi se le soluzioni suggerite debbano continuare a fondarsi su principi afferenti in misura minore o maggiore all’ambito dell’etica o della filosofia. Dovremmo cioè chiederci se dinanzi a una difficoltà pratica, allo scopo di giustificare decisioni utilitaristiche, sia corretto o utile fare ricorso a discorsi essenzialmente morali, per loro natura complessi da dibattere e valutare. Se infatti adottassimo una logica pratica, prescindendo da considerazioni etiche per puntare al maggiore vantaggio sociale possibile, dovremmo osservare il tutto dal prisma di una altrettanto pratica obiettività dell’analisi delle risorse materiali. E tale analisi ci direbbe che oggi di fatto si sta negando a coloro che più hanno contribuito alla creazione di un sistema sanitario, di godere con pieno diritto del frutto del proprio lavoro, cancellando un impegno profuso nel corso di intere esistenze.
Il parametro su cui poggia l’etica da cui scaturisce la decisione di escludere dalle cure alcune persone o categorie è in realtà fondamentalmente quello della giustizia distributiva, ossia dell’attribuzione ai cittadini di oneri e benefici nel contesto sociale e della distribuzione equa delle risorse. L’aspetto sconcertante di queste settimane però è che per decidere a chi dare priorità si sia partiti dalla situazione derivata dalla crisi, ovvero segnata da risorse limitate e insufficienti che andavano quindi assegnate a beneficiari prestabiliti, senza che nessuno paresse interessato a parlare degli oneri assunti da coloro che hanno permesso che fossero disponibili per tutti proprio quelle risorse che oggi fatichiamo a distribuire.
Di solito infatti sono proprio gli anziani coloro che hanno lavorato per più tempo e maggiormente contribuito alla creazione di un sistema che oggi li defenestra in virtù della logica di distribuzione degli oneri e benefici sociali. Su questa base è possibile che qualche anziano abbia dovuto cedere il proprio contributo a un’altra persona più giovane che forse in nulla ha contribuito alla creazione di una struttura sanitaria. Nessuno beninteso intende negare a chicchessia il diritto alla salute tramite l’accesso alle prestazioni sanitarie di massimo livello. Il problema si pone tuttavia acutamente quando si nega tale accesso a chi ha contribuito per una vita alla creazione di questo bene comune.
Se la mia analisi dovesse sembrare spietata, ricordiamoci che stiamo parlando della morte in condizioni particolarmente penose, lontani dai propri cari, assistiti da un personale medico stremato, isolati in strutture inadeguate, di migliaia di anziani che non hanno ricevuto quanto di meglio la sanità poteva offrire, e questo a causa di un’interpretazione probabilmente tendenziosa del principio di giustizia distributiva.
La realtà è che si tratta di una crisi che rischia di modificare alcuni pilastri su cui abbiamo fondato la nostra esistenza, uno per tutti il valore della vita di una persona che ha raggiunto la vecchiaia, lo stesso traguardo che la medicina e la società dipingono come una meravigliosa conquista della modernità. E questo io lo trovo profondamente paradossale.
Non voglio concludere questa mia breve riflessione senza rinnovare il plauso ai professionisti della sanità che si sono dati anima e corpo alla cura dei malati rischiando la propria integrità fisica e trovandosi, in rapporto ai temi affrontati in questo articolo, nella posizione di dover prendere decisioni che hanno condizionato vite, ferito duramente sentimenti e generato angosce certo non sminuite dalla condivisione dell’etica imperante. E se da un lato è necessario ricordarli, dall’altro sarà altrettanto fondamentale a suo tempo rammentarsi di quei leader politici di Paesi occidentali che hanno sottovalutato il pericolo, sminuendo con superficialità la gravità della malattia fino a trasformarsi, talora, in rozzi araldi di morte.
(traduzione di Rossana Ottolini)