Corriere della Sera, 24 maggio 2020
Dopo la paura, ecco la rabbia
Ho vissuto con un certo distacco la recente pandemia da coronavirus, visto che essa ha toccato marginalmente le zone di mia più frequente presenza (dal Molise all’Umbria, dalla Basilicata a Roma) ma lontane dalla cupa drammaticità delle zone cosiddette rosse. Non è stato naturalmente un privilegio di casta, ma una fortunata contingenza, garantita dalla tradizionale differenziazione geografica e socioeconomica del nostro Paese, una differenziazione da me spesso verificata; e talvolta cantata nel lavoro di ricerca; e sempre indicata come paradigma di riferimento per ogni processo e intervento di sviluppo.
L’avrei suggerita anche per il fronteggiamento della pandemia, ma si è preferita una prudente uniformità d’azione. Una uniformità che si è accompagnata al diffondersi altrettanto uniforme di tre sentimenti collettivi: la paura del contagio; la rabbia contro i disertori nella battaglia contro il contagio; e la propensione a dividersi anche nelle attuali speciali contingenze.
Anzitutto la paura, ampiamente circolata non solo nelle zone più esposte al contagio, ma in città, in paesi, in borghi dove il coronavirus non si è neppure affacciato. Tutti in casa; con le porte serrate, anche ai condomini («magari salutiamoci dalla finestra»); la spesa fatta solo per telefono; un profluvio di mascherine, anche in luoghi di improbabile pericolo; e la resistenza istintiva a ogni significativa relazione interpersonale. La dichiarazione dello «stato di emergenza» ha funzionato come una dichiarazione di guerra e tutti hanno pensato di vivere una paura da guerra, non avendo però personale ricordo del terrore causato dal volo di centinaia di fortezze volanti e delle migliaia di bombe da esse sganciate, mentre a terra le motociclette delle SS sparavano ad altezza d’uomo. Mi sono spesso domandato nelle scorse settimane perché i cittadini di Roma o di Matera dovessero vivere in una paura irrefrenabile del coronavirus. E non ho trovato risposta sul puro piano del ragionamento: la paura è stata una esplosione antropologica, quasi misteriosa, ed è stato inutile cercare di far ragionare nove su dieci dei miei amici umbri, romani, meridionali. Mi è capitato, nella notte del recente terremoto a Roma, di veder scendere in strada persone che indossavano la mascherina alle 5 del mattino. L’ho fatto notare quasi per scherzo e sono stato guardato con rabbia, quasi con astio.
Una rabbia diffusa ha infatti accompagnato la paura legittimando piccoli e grandi episodi di denuncia e di disprezzo per chi attentava alla collettiva difesa dal contagio. Mi sono arrivati rimproveri di ogni tipo: per la presunzione di continuare a lavorare, o per la libertà di una visita in chiesa; fino ad arrivare al vecchietto sconosciuto che battendo con forza il suo bastone sulla mia auto urlava «delinquente, è uscito senza mascherina, arrestatelo» a un vigile urbano alquanto interdetto. Forse sono stato sfortunato nel vivere in un ettaro di vicinato nervoso, ma ho respirato a pieni polmoni la «rabbia da paura», che è stata la cifra psicologica collettiva di questi ultimi mesi; di cui qualche scoria negativa certo resterà.
Anche perché paura e rabbia hanno innescato un terzo sentimento collettivo: la propensione a dividerci. È vero che nella storia d’Italia le tentazioni divisive sono state più che frequenti; ma avrei sperato nella pandemia potessimo rifiutarle, ritrovando senso e cammino comune. E invece no, ci siamo divisi fra chi ha avuto paura e chi no; chi si fidava dei virologi e chi no; chi si arrabbiava sul possesso delle mascherine o no; chi voleva la riapertura delle imprese e chi no; chi accettava la selezione degli «affetti stabili» e chi ci ironizzava su; chi stigmatizzava ogni assembramento e chi invece trovava modo di scendere in piazza, chi ritiene che non si poteva reagire meglio e chi comincia a pensare ad attribuzione di colpe e danni. Anche stavolta non siamo sfuggiti all’antropologica tendenza alla divisione, pur se paradossalmente vissuta in un periodo di pace domestica e di inerzia delle emozioni.
Non sottovalutiamo questa coazione a dividerci: ci aspettano infatti mesi difficili sul piano economico e verosimilmente sociopolitico, dove avremo più paura (di riduzione dei redditi come del lavoro); e avremo più squilibri e diseguaglianze fra diversi strati della popolazione. Potremo dover fronteggiare un insieme di conflitti sociali (alcuni prevedono rivolte); e alla rabbia da paura potrebbe subentrare una rabbia da indigenza che sarebbe bene evitare. Magari non ripetendo l’uniformità di intervento messo in atto nella pandemia (se ne avverte il contagio nella propensione ad usare lo strumento dell’assistenzialismo a pioggia) ma piuttosto con una puntuale conoscenza delle diverse realtà territoriali, articolando analisi e interventi, unica strada per non lasciare che paura e rabbia diventino pandemie.