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 2020  maggio 24 Domenica calendario

Intervista a Giuseppe Penone

Giuseppe Penone, artista e scultore, ha trascorso la quarantena in campagna vicino a Torino, sulle colline di Castagneto Po.
Come ha vissuto questo periodo? 
«Il mio lavoro viene svolto in solitudine e non ha bisogno di relazioni sociali, quindi ho sofferto poco della mancanza di contatti».
La natura è centrale nelle sue opere. Che effetto le ha fatto vederla sbocciare dalla finestra? 
«Erano anni che non vivevo la primavera seguendola giorno per giorno. È una sensazione di partecipazione ad un ritmo perduto. Per via dell’obbligo di rimanere in un luogo fisso, si acquisisce un’attenzione ai particolari che in altri momenti non si ha. Con quanta rapidità si sviluppano le foglie, un’esplosione di allegria che dà speranza! La coincidenza della chiusura con l’avvento della primavera ha mitigato la sensazione di tristezza». 
Su cosa ha lavorato in questo periodo?
«Ho uno studio in questa casa oltre allo studio di Torino, e ho avuto il tempo di terminare dei lavori e di fissare nuove idee». 
Quali?
«Una riflessione generica che conduco attraverso un modo espressivo, la tecnica dell’incisione a punta secca, e cioè una lastra di rame che si incide con delle punte molto acuminate che graffiano la superficie del metallo. L’opera viene poi inchiostrata e stampata su carta. Questo gesto è molto vicino al gesto della scultura».
Nel 2014 in Giappone ha vinto il prestigioso Premio imperiale per la scultura. Si definisce scultore?
«Sì, perché lavoro materiali a tre dimensioni. Uso il bronzo ad esempio, ma ho fatto lavori anche con le foglie: si può pensare non siano adatte alla scultura ma in realtà hanno una presenza e una persistenza sorprendenti». 
Le mostre che aveva in programma?
«Sono state tutte cancellate. Dovevo farne una a maggio da Marian Goodman a New York, una alla BNF (Bibliothèque Nationale de France) in ottobre e un’altra alla Garlinden in Olanda a inizio 2021. Causa coronavirus sono state tutte rimandate di un anno». 
Ha l’impressione che si sia fermato il tempo?
«Sì. Questo momento di chiusura e riapertura è un po’ come un viaggio in treno. Quando uno parte ha ancora dentro la presenza del luogo dove si trovava prima e un certo ripensamento. Poi c’è una quiete, un momento in cui la mente è libera. C’è assenza di tempo e di pressione e uno può pensare e scrivere liberamente. E poi c’è il momento che precede l’arrivo in cui si pensa alle questioni pratiche e anche all’incertezza di cosa si troverà».
Ha avuto paura?
«Mai. Ma ho avuto brutte notizie, come la morte di Germano Celant, un caro amico, e la malattia di Michelangelo Pistoletto, che per fortuna è guarito». 
È sempre citato come uno degli artisti dell’Arte povera. Si ritrova in questa definizione?
«Sono stato l’ultimo artista che si è inserito in questo gruppo. Feci i miei primi lavori nel ’68, a 21 anni, e Celant li inserì nella pubblicazione Arte povera, edita da Mazzotta, del ’69. Gli artisti di quel gruppo sono tutti importanti, interessanti per la situazione dell’arte non solo italiana. La parola "arte povera" è diventata una struttura, uno spazio mentale che ha permesso di sviluppare un lavoro negli anni». 
Pistoletto la definisce l’anti-pop art.
«In un certo senso è vero: si sono recuperati dei valori culturali italiani ed europei».
Pensava che i prezzi delle vostre opere sarebbero cresciuti così tanto?
«Prevedere il successo a livello economico non era una preoccupazione. C’era bisogno di vivere e vendere, ma era più importante affermare delle idee. Poi è cambiato tutto. Il valore del mercato è diventato il valore dell’opera ma è un metodo di valutazione grossolano». 
Fin da giovane ha esposto in tutto il mondo e la sua opera è basata sul rapporto tra uomo e natura.
«Le mie opere considerano l’uomo come una parte della natura e sono nate con un’idea tra l’azione dell’uomo e il divenire della natura. Ad esempio Alpi Marittime, uno dei miei primissimi lavori». 
Il coronavirus ha indebolito l’uomo e reso la natura più rigogliosa, anche grazie al silenzio e all’assenza di inquinamento? 
«Sento parlare della natura come di qualcosa che l’uomo deve proteggere come se ne fosse il padrone e non ne facesse parte. Ma la natura esiste indipendentemente dall’uomo. Ci preoccupiamo di salvarla solo egoisticamente, perché il suo mutamento minaccia la nostra esistenza. Ma la natura sopravviverà».
Qual è la funzione dell’arte?
«Una sedia è un oggetto che ha una funzione per il corpo, l’urbanismo ha una funzione per la comunità. L’arte ce l’ha per la mente e non solo per il corpo. E ce ne è bisogno, come c’è bisogno di sognare e di capire ciò che ci circonda».
Che differenza c’è tra un’opera d’arte e una sedia?
«Una sedia serve al corpo. «L’arte è come la poesia nella scrittura. Ci sono cose scritte con una funzione immediata e parole che hanno la funzione di evocare sensazioni».
In questo momento il mondo, in attesa di un vaccino, affronta con cautela e timore la riapertura. Lei?
«Anch’io mi apro poco per volta alla società. Per quanto riguarda la mia produzione, invece, va avanti indipendentemente. Se il mio lavoro fosse cinematografico sarebbe bloccato, ma essendo legato ad un’espressione attraverso la materia non è inibito. Preparo delle opere come disegno e, se riesco, le realizzo. Oppure posso lavorare anche soltanto con un grumo di creta».
Cambierà il mercato dell’arte?
«Ci può essere una battuta d’arresto ma può l’arte può anche diventare un bene rifugio».
Con la sua opera vuole lasciare un segno?
«Il riconoscimento dell’opera è molto importante per un artista che deve comunicare. Ma il punto principale è il piacere di fare, è quello che mi spinge a lavorare ancora oggi. Ho 73 anni e penso di declinare in modo diverso le idee che ho».
Ad esempio?
«Stavo pensando ad una serie di alberi inversi. È una parola che suggerisce tante possibilità. Una visione poetica delle cose».
Si considera un poeta?
«Se si estende l’idea della poesia all’uso della materia, con molto pudore, possiamo dire di sì».