Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2020
Meglio il cervello del computer
Alla fine degli anni ’60, nei seminari di neurofisiologia all’Università di Zurigo, il professor Konrad Akert, esperto del sistema nervoso delle formiche, ci mostrava fotografie dei loro neuroni motteggiando che erano identici ai nostri. Oggi si sa che nel sistema nervoso umano ci sono circa mille tipi di neuroni, diversi per morfologia e biochimica. L’unico neuro-trasmettitore era l’acetilcolina, oggi sono più di cento, attivi in ogni evento cerebrale, fisico e mentale.
Già questi aneddoti mostrano che la complessità del cervello (non solo umano) aumenta più la si studia, giusto l’ammonimento del fisico John Arcibald Wheeler, che più cresce l’isola della conoscenza più s’allungano le coste dell’ignoranza. Recentemente il neuroscienziato Wolf Singer ha dichiarato di conoscere il cervello meno di vent’anni fa.
Il magnifico, anche se non del tutto condivisibile, libro del biologo dell’Università di Manchester Matthew Cobb è la storia attendibile, spesso arguta e polemica, di come, dopo più di duemila anni di riflessione filosofica, religiosa e scientifica e un secolo e mezzo d’intensa ricerca sperimentale e clinica, che ha fornito un’enorme mole di dati preziosissimi, si debba ammettere che del funzionamento del cervello si sa poco o nulla.
Nei termini dell’autoreferenzialità, sui quali Cobb sorvola, il cervello che cerca di capire se stesso non viene a capo della sua natura, che, nel bene e nel male, ci fa essere quel che siamo. Cobb dice, a ragione, che non si ha nemmeno l’idea di ciò che significhi «comprensione» del cervello. Molti neuroscienziati, aggiunge, sono dell’opinione che l’impossibilità del cervello di capire se stesso durerà ancora a lungo. Dopo decenni d’arduo lavoro il bilancio è sconfortante. Cobb crede che, cambiando metodologie, si possa arrivare al traguardo ma non azzarda ipotesi.
Come esempio dei misteri del funzionamento cerebrale Cobb dedica molte pagine, fra le più riuscite, alla percezione visiva. Ciò che si vede sembra che “entri” dentro di noi. In realtà ciò che vediamo provoca un’attività elettrochimica nella retina, elaborata poi in aree del cervello a seconda della loro natura (volti, colori, movimento, ed altro). Alla fine dell’elaborazione degli eventi elettro-chimici in varie aree cerebrali, si diventa coscienti non della realtà, ma dell’informazione creata dal cervello. Se, ad esempio, nell’occhio o nel cervello manca per difetto congenito l’area per la percezione di uno o più colori, la persona non saprà mai che cosa essi siano. Ogni percezione è quindi un’interpretazione cerebrale della realtà.
Aggiungiamo una ricerca di grande interesse: con le risonanze magnetiche si vede che le aree frontali attive durante un ragionamento deduttivo («gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo... ecc») non sono le stesse del ragionamento induttivo, cioè dell’interpretazione dell’esperienza. Si sa dove e come i meccanismi elettrochimici dell’attività cerebrale avvengano e come si diffondano, ma non in che cosa consistano: non si sa, per rimanere alla visione, come stimoli elettrochimici trasmettano alla coscienza forma, dimensione e colori dell’oggetto che vediamo.
L’attività cerebrale non è l’unico evento di cui sfugge la natura. Cobb porta l’esempio della forza di gravità: che essa sia una caratteristica della materia è indubbio, ma quale sia la natura dell’attrazione fra due corpi è un mistero. Ancor oggi si sa calcolarla per due corpi, ma non per tre. Come sorga la volontà e come determini il comportamento, le percezioni, l’affettività, le emozioni, si sa grosso modo in quali aree del cervello avvengono, e poco altro.
Il libro è la storia delle molte interpretazioni su ciò che il cervello fa e come lo fa. Tralasciando le pagine (pur interessanti) sulle meditazioni religiose e filosofiche, Cobb tratta diffusamente le metafore naturalistiche del cervello con le quali la neuroscienza ha lavorato e lavora, a partire da L’ Homme machine, il testo della svolta nello studio del cervello umano. Fu pubblicato nel 1747 dal medico francese Julien Offray de La Mettrie. Fra banalità e assurdità, il senso generale è chiaro e giusto: la razionalità scientifica è la sola guida alla conoscenza dell’uomo, il cui corpo «è una macchina che monta da sé le sue molle», e quindi come macchina va studiata, secondo il materialismo rigoroso. Tutte «le facoltà dell’anima dipendono dall’organizzazione particolare del cervello» e quindi la «capacità di pensare è solamente la conseguenza dell’organizzazione della macchina». Anche le «facoltà dell’anima» si studiano dunque con metodologia riduzionistica. Offray de La Mettrie trascura i limiti conoscitivi della condizione umana, di cui poi molto si discusse e si discute.
Le metafore neuroscientifiche (macchine, elettricità, frenologia, codificazioni, reti, calcolatori, computer) che Cobb tratta estesamente sono state d’aiuto nello studio dei meccanismi cerebrali, fin dove i loro limiti consentivano e consentono d’andare. Questa, per Cobb, è la condizione in cui si trovano oggi le neuroscienze con la metafora del computer. Essa è ancora dominante perché non si sa come sostituirla. Poco sensato, dice Cobb, paragonare il computer al cervello: il primo è costruito dal cervello e reagisce a comando, il cervello agisce spontaneamente ed è il frutto dell’evoluzione casuale di miliardi di anni. Nessun cervello, neanche il sistema nervoso di una formica, è paragonabile a un computer.
Cobb ricorda il granchio della Commissione europea di finanziare, nel 2015, il Human Brain Project del neuroscienziato Henry Markram di Losanna: una cinquantina di computer collegati fra di loro avrebbe simulato il cervello umano al punto che su di lui, a partire dal 2020, si sarebbe potuto studiare l’efficacia di medicamenti. La reazione della comunità neuroscientifica fu unanime: in quel progetto, del cervello non c’era niente. L’impasse della scienza, ammonisce a ragione Cobb, ha portato a una fiumana di pseudostudi su mente estesa ed allargata, panpsichismo, coscienza quantitativa, coscienza fuori dal cervello, nuovo realismo e molto altro, sui quali non mette conto soffermarsi.
Ventotto anni dopo aver proposto la neurofilosofia come interfaccia fra filosofia e scienza del cervello, il bilancio, per Patricia Churchland, è stato lapidario: la neurofilosofia non era mai nata. La filosofia della mente non ha portato alcun contributo alla comprensione del cervello. Il merito del libro, oltre che nella storia delle interpretazioni e delle insufficienze circa il funzionamento del cervello, è di illustrare ciò che resta da chiarire. Che è quasi tutto. È lecito dubitare che il cervello riesca a trovare un’idea del cervello.