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 2020  maggio 24 Domenica calendario

Ivy Compton-Burnett, la Grande Signorina sinistra

Uno dei suoi più tenaci estimatori, Giorgio Manganelli, nel 1965 scriveva così: «Ivy Compton-Burnett, scrittrice settantenne, è, a mio avviso, il massimo romanziere inglese di oggi, ed è anche il più singolare, provocatorio e illuminante. È scrittrice difficile e solitaria: donde le sue lente e ancora anguste fortune critiche». Temerario contraddire il Manganelli recensore, ma sulle fortune critiche di Compton- Burnett si sbagliava se anche due eroine del realismo narrativo, lontanissime da lei per poetica e stile come a suo tempo la nostra Natalia Ginzburg e recentemente l’inglese autrice di best-seller Hilary Mantel, la considerano scrittrice del cuore. Inoltre in patria, nel mondo e in Italia è molto rispettata dagli editori, che regolarmente ne ripropongono l’opera. Da noi ora è la volta di Fazi, che già l’anno scorso aveva ripubblicato uno dei suoi libri più noti, Più donne che uomini, e adesso manda in libreria, prima edizione italiana, un romanzo del 1935, Il capofamiglia (traduzione un po’ arbitraria di A House and its Head”, cioè Una casa e il suo capo: i titoli di Compton- Burnett si caratterizzano sempre per la presenza di due parole unite tra loro da un nesso che si rivelerà controverso). 
Di questa autrice, nata nel 1884 e morta nel 1969 dopo aver raggiunto un grande prestigio ed essere diventata l’idolo di molti colleghi più giovani, Manganelli dice anche che non vi è nella sua narrativa «nessuna concessione al realismo, al naturalismo, al verosimile», e che l’unica cosa che in essa conta è la struttura. Del resto una delle figure di spicco dell’antirealistico nouveau roman, Nathalie Sarraute, le dedicò una appassionata e ammirata attenzione critica ritenendo proprio che nella sua opera tutto fosse affidato alla struttura, cioè all’ingegneria formale, senza concessioni alla psicologia e alla realtà dei fatti narrati. Tra tanti fan spicca la voce contraria di una intellettuale e narratrice americana prestigiosa come Joyce Carol Oates, che invece la considera (in un articolo di qualche tempo fa sul «New York Times») poco più o poco meno che una autrice minore, e ne sottolinea la mancanza di inventiva. Anche se è proprio Oates a darne, en passant, una definizione illuminante: «Eschilo e Sofocle bizzarramente reiventati da Oscar Wilde». 
Leggendo il romanzo ora proposto in italiano, la Grande Signorina – come la chiamava Arbasino – non sembra affatto un’autrice minore ma neppure una rigorosa protagonista del modernismo o un’assertrice del più intransigente formalismo. Anche perché la trama del Capofamigliaha qualcosa in comune con la sua vicenda biografica. Come i personaggi di cui scrive Ivy era nata nella provincia inglese, settima figlia, tra dodici fratelli e fratellastri, di un medico mediamente benestante e della sua seconda moglie, subendo tutti gli intrighi di una famiglia complicata, sopportando una madre prepotente depressa e anaffettiva insieme a lutti e dolori tenacemente silenziati, e maturando per la sua vita adulta due decisioni: quella di diventare scrittrice e quella di non sposarsi mai. (Entrambe andarono a buon fine: dopo quattordici anni da un primo tentativo ripudiato, nel 1925, quarantenne, cominciò la sua vera e fortunata carriera letteraria mettendo al mondo diciannove romanzi. Quanto al matrimonio, il suo unico legame duraturo fu con una riservata compagna, che dopo dieci anni di vita in comune al suo esordio disse di non sapere che Ivy scriveva libri). Certo, nel romanzo non c’è niente di banalmente autobiografico né quel noioso sentimentalismo o patetismo famigliare che imperversa nelle saghe domestiche dei nostri giorni, ma nel suo andamento da commedia tragica spira un persistente vento di passione negativa, che è quanto di più lontano si possa immaginare dalle fredde atmosfere dei formalisti francesi del nouveau roman
L’azione di Il capofamiglia comincia il giorno di Natale del 1885. A casa della famiglia Edgeworth imperversa il malumore fin dall’inizio della mattina, quando Duncan, il padrone di casa, si lamenta aggressivamente con la moglie Ellen perché le sue due figlie, la ventiquattrenne Nance e la diciottenne Sibyl, e il nipote che vive con loro, il venticinquenne Grant, non si sono ancora presentati per la colazione. Attorno a questo piccolo sgraziato e nevrastenico nucleo familiare ruota tutta la vicenda, che vedrà all’opera una fitta rete di vicini, alcune domestiche, una governante e un curato piuttosto insofferente: tutti pettegoli, tutti impiccioni, tutti rapiti dalle vicende della famiglia che si snoderanno tra parecchi matrimoni, nascite e morti di eredi, problemi testamentari, molto rancore e molte battute di un umorismo più sinistro che nero. Come: «Tuo padre ha il potere. La pietà è per chi il potere lo subisce. Ed è un magro risarcimento, credimi»; oppure: «È faticoso per le eccezioni dover sempre confermare le regole»; o: «La dignità viene sempre chiamata in causa nelle situazioni che ne sono del tutto prive». 
Qualcuno dice che Ivy Compton-Burnett è la vera erede di Jane Austen. Ma le differenze tra le due scrittrici sono molto più marcate delle affinità. Per esempio il matrimonio: per Austen è in genere un happy end, per Compton-Burnett l’inizio di un prevedibile disastro. E se una crede nella necessità e anche nell’utilità del gioco sociale e delle sue maniere, l’altra non vi scorge che una maschera mortuaria messa a coprire i veri istinti degli esseri umani, crudeltà, invidia, avidità, gelosia… Nel Capofamiglianon ci sono personaggi amabili, o figure che invogliano un’identificazione. Il più simpatico è il cinico, concupiscente, parassita nipote Grant, mascalzone dichiarato. Eppure questo romanzo è sicuramente uno dei più coinvolgenti della Grande Signorina: nel suo caratteristico intreccio di toni da commedia e eventi da tragedia, il pathos della verità contro l’ipocrisia sociale scorre come una violenta vena sotterranea sotto la martellante chiacchiera dei personaggi – tutti convinti, anche nelle circostanze più imbarazzanti, che la conversazione sia «sempre preferibile al silenzio». 
Compton-Burnett aveva un suo modo particolare, certo non militante, di essere dalla parte delle donne: qui ogni pagina è un veemente e minuzioso atto d’accusa contro la famiglia patriarcale e contro il potere maschile, arbitrario e aggressivo. La morte di Ellen, la moglie del tirannico capofamiglia, colpisce al cuore più di qualsiasi denuncia femminista. La sessantenne signora Edgeworth, mai realmente padrona di casa, mentre il marito la incita a prepararsi per uscire con lui, si accinge a lasciare questo mondo con sommesse ma precise parole: «Qualche volta ci si ammala. A me è successo poche volte, meno di quanto avrei voluto, perché vostro padre detesta la malattia. Certe volte ho bisogno di essere come gli altri».