Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2020
Behrouz Boochani racconta 6 anni detenuto senza un’accusa
«I media si stupiscono di come abbia potuto scrivere un intero libro inviando di nascosto ai miei carcerieri messaggi whatsapp. Ma questo non è niente di straordinario, ciò che è incredibile è che in questo mondo una democrazia liberale come l’Australia possa commettere crimini contro l’umanità e nessuno se ne curi!».
Il poeta, giornalista, documentarista curdo iraniano Behrouz Boochani ha 37 anni, sei passati in prigione. O meglio, in quello che gli australiani chiamano Manus Island regional processing centre (centro di smistamento regionale di Manus Island). Un luogo di tortura dove fame, sete, insonnia, calore, condizioni igieniche rivoltanti e violenza psicologica sono usati per controllare i detenuti, pardon, i richiedenti asilo, qui trattenuti per 7-8 anni senza un’accusa, una sentenza, una condanna. Solo in attesa che venga vagliata la loro domanda.
Un sistema spietato e kafkiano studiato per annichilire gli individui, farli sbranare tra loro e al loro interno, svilendoli e inducendo comportamenti masochistici, distruggendone ogni ambizione e speranza, come Boochani descrive con maestria in Nessun amico se non le montagne. Prigioniero nell’isola di Manus (trad. persiano-inglese di O. Tofighian e poi in italiano di A. Maestrini, Add, pagg. 432, € 18). «Almeno 16 persone sono state uccise mentre ero a Manus, più di cento si sono suicidate» racconta, durante una videointervista. Dopo la pubblicazione del libro, nel 2018, lo scrittore ha ricevuto numerosi premi letterari, tra cui il Victorian Prize, e a novembre scorso ha potuto lasciare la Papua Nuova Guinea con un visto di un mese per tenere alcune conferenze in Nuova Zelanda, dove è rimasto per via della pandemia, in attesa che un Paese gli conceda asilo.
«In Australia non c’è una legge che protegga i rifugiati di fronte al ministero dell’Immigrazione: fa tutto ciò che vuole. Esilia innocenti per anche 10 anni e non lo deve giustificare a nessuno. Ancora non c’è un’inchiesta indipendente». Nemmeno dopo il successo mondiale del suo libro di denuncia? «No».
Laureato in Scienze politiche e Geopolitica, Boochani ha cofondato la rivista in lingua curda «Weyra», che gli è costata la messa al bando del regime. «Volevo andare in un posto dove sentirmi al sicuro. E invece sono finito in quella situazione terribile». Il libro si apre con la descrizione del viaggio che lo porta alla spiaggia indonesiana dove si imbarcherà alla volta dell’Australia. Una tempesta li investe e nelle onde altissime che travolgono il barcone si trova in versi l’unica descrizione dell’oppressione del Kurdistan: le onde sono montagne su montagne, che si susseguono all’infinito come nel suo Paese, sempre più minacciose, finché compaiono «file di carri armati, ed elicotteri, armi e corpi morti. Cumuli di morti e il pianto delle donne».
Al naufragio seguirà il salvataggio, ma la marina australiana non lo porterà sul continente, ma a Manus, un’isola della Papua Nuova Guinea. «Il 19 luglio 2013 il governo decise di esiliare chiunque cercasse di arrivare in Australia via nave. A Nauru mandavano i bambini, le donne, le famiglie, erano detenute circa 1.600 persone, a Manus gli uomini soli. Io sono stato imprigionato lì il 27 agosto 2013 con altri mille». Dovevano «essere un avvertimento, una lezione per chi intendeva cercare protezione in Australia».
Nella prigione, pardon, nel Centro di smistamento impacchettato nelle sbarre, i rifugiati li trattano da criminali. La giornata è scandita da lunghissime code sotto il sole rovente per avere colazione, pranzo e cena, gli antimalarici, le sigarette, i rasoi. E poiché le scorte sono razionate le conquistano solo i primi e i più furbi e le risse sono frequenti. Lunghissime code anche per andare in bagni sempre pieni di «piscio fino alle caviglie». Gli escrementi degli altri si attaccano addosso, gli altri che sono ovunque, tanto che i fetidi gabinetti «sono un deposito segreto per tutte le sofferenze generate in altre aree della prigione», il rifugio, dove gli uomini vanno a tagliarsi. Il petto, i polsi, «il collo delicato». «Camere di devastazione».
Misure disciplinari di macro e micro controllo pensate per creare animosità governano ogni cosa. Anche giocare è vietato. «L’odio scorre nelle vene di tutti». E isola ancora di più i detenuti. Spesso, poi, il generatore che aziona i ventilatori nelle bollenti baracche di metallo si ferma. Allora «la prigione impazzisce e collassa». Nei detenuti avviene un’immediata metamorfosi: scossi a tutti i livelli, sono «in preda a una rabbia feroce. Una massiccia carica di uomini nudi si riversa con urgenza fuori dalle camere e dai container… La prigione diventa un alveare di api assassine… e l’inezia più banale può scatenare un attacco contro un fisico mingherlino». Il generatore manipola le menti, i prigionieri non possono mai prevedere quanto resteranno senza acqua né elettricità. Così come le regole del campo sono arbitrarie e cambiano in continuazione, gettando i detenuti nella disperazione. Inutile cercare di capirle: «Come in una ragnatela, più combatti più rimani intrappolato».
«Il sistema tritura e disorienta il prigioniero al punto da alienarlo dalla percezione che ha di sé stesso». E così mentre inorriditi si prosegue nella lettura di questa galleria di abusi si comincia ad avvertire un certo senso di familiarità. Vengono per esempio in testa le parole di Giorgio Manganelli sulle nostre menti, costrette a un’«obbedienza sempre più minuta», sul controllo capillare dello spazio e la coercizione del tempo nelle società occidentali.
Per alcuni aspetti ricorda l’Italia, certi luoghi di lavoro. Boochani conferma: «Il sistema che governa Manus e Nauru ha molti gemelli, esiste in modi diversi nelle nostre società. Sono sistemi disegnati per sottrare libertà, identità e umanità, per creare competizione, fare odiare le persone e controllarle. Torturano e alienano la gente attraverso la burocrazia. Ho voluto condividere la mia comprensione della politica, delle strutture di potere, dell’eredità coloniale e della situazione delle minoranze. Come gli aborigeni, che ancora non fanno parte della storia ufficiale australiana». Gli chiediamo se ha letto Primo Levi: «solo dopo aver finito il libro, ma avevo letto Memorie dalla casa dei morti di Dostoevskij e conoscevo il pensiero di Focault e Agamben». E ora? «Avere la libertà è una cosa, capirla è un’altra. Cerco di adattarmi alla nuova vita facendo cose semplici».
Nel libro un personaggio decide di accettare che non può fare altro che essere testimone. «Non lo ricordo. Non lo rileggo da tempo, né lo leggerò più. Non voglio vivere a Manus, nel passato. Scriverò fiction, ma continuerò a impegnarmi per i rifugiati».