La Stampa, 24 maggio 2020
Biografia di Francis Ford Coppola
«È la storia di un re», mi disse Francis Ford Coppola, dopo che lo avevo tormentato per sapere come avrebbe definito, con poche parole, il suo capolavoro. «Un re che ha tre figli: il primo eredita dal padre la dolcezza, il secondo la forza e il terzo l’intelligenza». Il film di cui parlava era Il Padrino, e sapeva di aver realizzato una tragedia shakespeariana, cercando di comprendere gli uomini prima dei criminali. Non c’è occasione, pubblica o privata, in cui non venga tuttora sollecitato a parlarne, ma nonostante sia irritato dall’essere identificato quasi esclusivamente con quel film straordinario, cerca sempre di dare una risposta non banale. Ha il carisma del patriarca, placido e potente: ovunque vada si forma immediatamente una fila di persone che vanno a omaggiarlo anche quando sono presenti altre star di prima grandezza. Ed è affascinante sentirlo rievocare le infinite battaglie senza cedere al rancore della sconfitta, né alla vanità della vittoria: gran parte le ha combattute perché ha precorso i tempi, puntando all’innovazione e alla qualità, come ha raccontato in Tucker, la storia del costruttore di macchine splendide e rivoluzionarie che venne fatto fallire dalle grandi case automobilistiche. «Quello che conta è aver fatto vincere un’idea», affermava il protagonista nel finale di quel bellissimo film autobiografico, ed è quello che dice lui senza mai alzare i toni.
Da grandissimo uomo di spettacolo, sa quando è il momento di proporre le sue idee: qualche anno la Film Society del Lincoln Center gli attribuì il premio alla carriera, e nel discorso di ringraziamento prese di mira la decadenza di Hollywood. «I film ormai ripetono stancamente formule uguali a se stesse, senza idee e senza rischi. E le pellicole obbediscono solo a due comandamenti: eccitare e tranquillizzare. Ma è come se l’intera industria farmaceutica producesse solo Viagra e Valium». Fu un ennesimo trionfo per un artista che nel giro di sei anni ha realizzato quattro capolavori consecutivi come Il Padrino, La Conversazione, Il Padrino parte 2 e Apocalypse Now; che ha avuto 14 candidature agli Oscar vincendone sei, uno dei quali come sceneggiatore per Patton, generale d’acciaio: tra i maestri del cinema è tra i pochi in grado di unire al magistero registico un grande talento di scrittura. Con il corto Captain Eo, con Michael Jackson, è stato tra i primi a sperimentare il 3D, con Un sogno lungo un giorno ha anticipato di 40 anni quanto ha fatto Damien Chazelle con La La Land, e in veste di produttore ha scoperto George Lucas con L’Uomo che fuggì dal futuro e American Graffiti, ha dato la possibilità ad Akira Kurosawa di realizzare Kagemusha, per non parlare di Paul Schrader con Mishima o Godfrey Reggio con Koyaanisqatsi. È insomma un pioniere e un produttore illuminato, che ha combattuto l’industria hollywoodiana con la sua casa di produzione Zoetrope, trasformata recentemente anche in casa editrice; il nome è quello della lanterna magica con cui giocava da piccolo quando fu colpito dalla poliomelite.
Per comprendere l’animo e le scelte di questo titano è necessario ricordarne le radici: Francis, che deve il secondo nome Ford al fatto di essere nato a Detroit, appartiene a una delle grandi famiglie dello spettacolo americano: il padre Carmine, nativo di Bernalda, in Basilicata, era un musicista apprezzato, e ha suonato come flautista per Toscanini. La madre Italia Pennino è una zia di secondo grado di Riccardo Muti, e la moglie Eleanor ha diretto Heart of Darkness sulla realizzazione di Apocalypse now. Il fratello Augusto, padre di Nicolas Cage, era un accademico molto stimato, mentre la sorella Talia interpreta Connie nella saga del Padrino ed è la madre di Jason Schwartzmann. La figlia Sofia è ormai una star della regia, mentre il figlio Roman si è ritagliato il ruolo del produttore. Il più grande dolore della sua vita è stata la perdita del primo figlio Gian Carlo in un incidente nautico: la tragedia si riflette nel film girato in quel periodo, Giardini di pietra, e da allora ne ha cambiato irreversibilmente lo sguardo sulla vita.
Uno degli aspetti che lo differenzia da quasi tutti gli altri registi è quanto poco parli di cinema: ne conosce alla perfezione le potenzialità artistiche, le miserie e le follie, e ha sviluppato una straordinaria capacità di adattamento. Mentre preparava Il Padrino II venne informato che Richard Castellano, per riprendere il ruolo di Clemenza con cui era stato candidato all’Oscar, pretendeva che le sue battute fossero scritte dalla moglie. Il ruolo venne subito sostituito con quello di Frankie Pentangeli, per la gioia dell’attore Michael Gazzo. Grazie agli studi alla Ucla, dove divenne amico di Jim Morrison, e all’apprendistato con Roger Corman, ha la conoscenza meticolosa che nasce da una lunga gavetta, ma la folgorazione sull’idea di spettacolo che diviene arte avvenne vedendo a Broadway Un Tram che si chiama desiderio diretto da Elia Kazan con Marlon Brando. Da grande nepotista quale è, ha scritturato tutti i parenti citati, ma ha esteso questo atteggiamento a Morrison, che ha voluto omaggiare aprendo con le sue musiche Apocalypse Now, e Brando che deve a lui la sua rinascita grazie a questo stesso film e prima ancora al Padrino.
Tuttavia dedica ormai da anni gran parte del proprio tempo ad altro: la produzione del vino, gli investimenti in resort in luoghi come il Belize o la Basilicata, la commercializzazione di alimentari: ha lanciato una linea di salse denominata Mammarella. Vive queste scelte eclettiche con la stessa passione che ha messo per anni nel cinema e oggi dichiara: «nulla mi diverte più di chiudermi in cantina e inventare oggetti o costruire gadget». Solo una cosa è superiore a tutte le altre: il culto sincero nei confronti della tradizione, ed è anche per questo che Il Padrino è un capolavoro, prima di essere una vicenda di criminali è la storia di una famiglia. Una volta lo incontrai alla prima della Traviata diretta dalla figlia Sofia all’Opera di Roma: era commosso sino alle lacrime, ma cercava di non farsi notare troppo per non rubarle lo spazio. «È la sua serata - mi disse - oggi il mio unico ruolo è quello di padre orgoglioso». Il luogo in cui riunisce i suoi cari è la sua magnifica tenuta nella Napa Valley, dove produce, oltre a uno champagne chiamato Sofia, vini di ogni tipo: anche nella viticultura è avventuroso e pionieristico, e nel giro di pochi anni è riuscito a produrre un vino pregiato premiato in tutto il mondo: nella scelta del nome c’è tutto lui, Rubicon.
«L’arte dipende in egual misura dal talento e dalla fortuna», afferma ripetutamente, ma è il primo a non crederci sino in fondo, dando primaria importanza all’abnegazione del duro lavoro quotidiano: «non esiste artista, di qualunque livello, che non abbia dubbi su quello che sta facendo». È stato il capofila dei registi che a fine Anni 60 esaltarono il cinema d’autore sfruttando la fine dello studio system, e anche i più grandi tra costoro, come Scorsese e Spielberg, ne parlano con un’ammirazione che sconfina nella deferenza. È tipico dei titani peccare di hybris, e non++++ sono mancati errori ed eccessi, specie in quegli anni, come peraltro successe a tutta quella generazione, a cominciare da Cimino e Bogdanovich. In alcuni suoi film, per molti versi ammirevoli, quali Un sogno lungo un giorno, si sente la mancanza di una sana dialettica con un produttore: oggi ammette che «in quel periodo avevamo accesso a troppi soldi, troppo equipaggiamento, e, a poco a poco siamo impazziti tutti». Negli ultimi anni sembra aver perso la passione per il cinema, ma basta sollecitarlo un attimo e torna a essere il bambino che gioca con lanterna magica: «I film e la magia sono sempre stati vicini: i primi registi erano dei maghi».