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 2020  maggio 24 Domenica calendario

Intervista a Leonardo Pieraccioni

C’è sempre un inizio in ogni cosa che si fa, cantavano gli Audio 2 ne I laureati, e quell’inizio, esattamente 25 anni fa, ha consegnato Leonardo Pieraccioni al ruolo di giovane fenomeno del cinema italiano, 15 miliardi di incasso, nuova verve alla commedia e la narrazione di un ragazzo leggero per vocazione, ma solido negli intenti, con accenni da convinto provinciale (“nonostante i successi alle feste romane nessuno mi filava”) di chi è consapevole, fiero e divertito di aver reso ben oltre ogni aspettativa.
E la storia de I laureati rientra nella bellezza del cinema.
Una peripezia?
Dietro quel film c’è tutto: caso, ostinazione, bugie, bluff, incoscienza, divertimento e amicizia.
Secondo Vittorio Cecchi Gori nasce dalla festa per la sua elezione al Senato.
Quello è l’atto finale di un percorso complicato: lì gli consegnai un copione dal titolo La casa fuori corso, che sembrava un film dell’orrore diretto da Pupi Avati, corredato da una piccola forzatura.
Cioè?
A Giovanni Veronesi avevo strappato un sì: “Ho scritto questo film, qualora dovessi trovare un produttore forte e con le spalle larghe, mi dai una mano per migliorarlo?”. Risposta: “Certo!”. Così con Vittorio e Rita Rusic spesi il suo nome, lui già reduce dai successi con Francesco Nuti. (Silenzio). Un attimo, prima di Cecchi Gori ero caduto in uno stereotipo del cinema.
Quale?
Ai ragazzi spiego sempre: non consegnate mai il vostro lavoro, il vostro scritto, a qualcuno che vi promette di portarlo a un produttore.
Invece, lei…
Mi fidai di un politico fiorentino, grandi parole e altrettanta speranza, e da genio mi rassicurò: “Conosco la Rusic, ci penso io”.
Un classico.
Il punto è un altro: alla mia ennesima sollecitazione su un riscontro, decise di mettere fine all’agonia: “Lo ha letto e giudicato legnosetto” (ride). Quando ho conosciuto la Rusic, timidamente le ho ricordato il precedente: “Signora, sono Pieraccioni, lei ha già letto il mio scritto, e non l’ha convinta”. E lei: “Non ho mai ricevuto nulla, dammelo”; dopo poche ore ecco la sua telefonata: “Va bene, anche a Vittorio piace”. (Ride ancora) mi vendicai rivelando nome e cognome del politico millantatore.
Perché la storia dei quattro fuori corso?
Per me la commedia perfetta sono i primi due Amici miei, capolavoro assoluto di sceneggiatura, di regia e interpretazione: li vedo ogni sei mesi e godo; loro erano dei cinquantenni-sessantenni con la paura di morire e io pensai ai trentenni con la paura di crescere.
A partire da lei.
Avevo 28 anni, affrontavo gli interrogativi sul futuro e avevo capito che a volte, l’università, era una forma di rifugio dalle responsabilità; comunque in Toscana, in particolare a Firenze, ci si riconosce in quei quattro di Amici miei.
Lei, in chi?
Nel giornalista Perozzi, eterno giocherellone, intenzionato a non crescere del tutto.
Prima di Cecchi Gori?
Con Carmine Parmeggiani, produttore esecutivo, abbiamo bussato a ogni porta dei possibili finanziatori e dopo il quinto “no” mi sono mentalmente vestito da uomo sicuro e, con uno di loro, ho giocato la carta della seduzione: “Ha presente quelle situazioni che nel cinema capitano una volta ogni dieci anni? Delle serie: ‘È venuto da me e non era nessuno, e adesso è famoso?’. Quello sono io”.
Ci credeva?
Per niente, e nel suo sguardo lessi un palese “ma che cazzo dici?”.
Gherardo Guidi, patron de La capannina di Viareggio, ha confessato che il “no” a “I laureati” è il suo rimpianto.
Il viaggio dalla Versilia a Roma lo interpretò come un segno del destino.
Cioè?
Per impressionare Guidi suggerii a Carmine una soluzione: “Non abbiamo un ufficio, non abbiamo niente, quindi trova una stanza a Cinecittà e incontriamolo lì, così respira l’ossigeno dei vincenti”.
Risultato?
Siamo riusciti a ottenere un dietro le quinte fasullo, illuminato da una lucina e con una scrivania realizzata grazie alle cassette della frutta.
Altro che vincenti…
Il problema fu il suo viaggio: era luglio e gli si ruppe subito l’aria condizionata; arrivò devastato dal caldo, sudato, e il buongiorno fu: “Che viaggio tremendo!”.
Fino a Cecchi Gori.
È stato la mia fortuna: senza la sua struttura, così solida, piena di professionisti e con una vera distribuzione, non sarebbe finita bene; poi allora c’era la sindrome del “cosa ne penserà Nanni?”, e per Nanni si intendeva Moretti.
Nanni Moretti come metro di giudizio?
Nel 1995 nessuno voleva esordire con un film che non potesse arrivare al suo festival, e tutti si impegnavano per raccontare storie “alte”, mentre io ero e sono un cabarettista prestato al cinema, con l’intenzione di girare senza alcun pensiero alla critica.
E…
Dopo l’uscita le critiche giornalistiche me le leggeva il Ceccherini assediato dalle lacrime agli occhi per le risate; peste e corna mentre il botteghino andava benissimo.
Non si offendeva?
Mai, e il massimo lo raggiunse Michele Anselmi (storico critico, ndr) con giudizi pesanti, compresa l’accusa di scarsa genuinità; (cambia tono, sornione) negli anni, con Veronesi, ci siamo divertiti ad assegnare nei film i nomi dei detrattori a personaggi che magari inciampavano. E Michele Anselmi c’è in Ti amo in tutte le lingue del mondo mentre è carponi, frustato sul sedere.
Come mai ne “I laureati” mancano i suoi amici, Conti e Panariello?
Eliminati con una cattiveria incredibile; nella vita non bisogna mai fidarsi di due categorie di persone: gli attori e i politici, e gli attori sono puttane micidiali, ma avevo la necessità di un respiro più nazionale, non solo toscano.
Come la presero?
Panariello non lo ricordo, e non so neanche se era incluso, mentre con Carlo nessun problema, tanto era un cane davanti alla macchina da presa, ma è bravo a teatro.
Gli altri protagonisti.
Andai dalla Cucinotta reduce da Il postino, poi da Gian Marco Tognazzi, bravissimo e portatore sano di un cognome che mi legava ad Amici miei; infine da Rocco Papaleo che già al primo incontro mi regalò una perla di se stesso.
Come?
Era un nome, e dopo avergli raccontato il film, insisto tantissimo sul desiderio di averlo nel cast e, all’ennesima sollecitazione, davanti alla porta della stanza, si gira e con accento lucano mi rassicura: “Leonà, se ti fa tranquillità ti dico subito di sì, perché non ho tutte queste richieste”.
Massimo Ceccherini…
Già al tempo la sua pessima fama lo precedeva, così lo guardai negli occhi: “È il mio primo film, non fare cazzate: domani mattina alle 8 sii puntuale”. Si presentò alle sette e mezzo.
Applausi e commozione…
In realtà piansi l’ultimo giorno di riprese: ero convinto che fosse il mio primo e unico film, eppure mi ero divertito tantissimo, ero certo che una goduria del genere non mi sarebbe più toccata.
Alla fine Ceccherini fece l’istrionico?
Massimo è la persona più buona e onesta, uno che non ti nasconde mai i suoi pensieri; poi ci sono due Ceccherini: uno prima della pausa sul set e un altro dopo, quando qualche scellerato tira fuori la bottiglia di vodka, ed è la fine. (Ci pensa) Lui conosce i limiti e non ha mai mandato in crisi la produzione.
Lei come regista…
Per I laureati ho girato un film lungo tre ore e 25, per questo ho tagliato tanti personaggi e cammei, come la presenza di Giancarlo Antonioni, per me un totem.
Trattò sul compenso?
Ho ancora incorniciato il foglietto con la cifra.
Una conquista.
Non avevo l’agente, e mi affidai ai suggerimenti di Veronesi: “Fai così: se ti offrono 40 milioni, rilancia a 50; se sono 50 punta a 60”. Bene. Vado all’appuntamento con l’avvocato di Cecchi Gori e dopo i convenevoli esordisce: “Noi abbiamo pensato a 70”. E io: “Benissimo!”. Risposta: “È stata la trattativa più veloce della mia storia”.
Alessandro Haber.
Nel film è il professor Galliano, in omaggio a Galliano Juso (celebre produttore degli anni Settanta, ndr).
Sì, ma da ventottenne all’esordio non sentiva la pressione di guidare un attore già esperto?
No, perché impostai il lavoro al contrario della regola consolidata: di solito l’attore si affida al regista, ma quando ho personalità così particolari sono io che mi affido al loro buon cuore; con Haber non si può scendere in guerra…
Mai.
Lui è celebre perché quando il regista capisce di aver ottenuto il ciak giusto, si impunta perché è convinto di poter offrire di più; in quel caso è inutile discuterci, e gli concedevo l’ulteriore ripresa.
C’è l’esordio della Arcuri.
Sempre una meravigliosa donna, ma a quel tempo era incredibile, e il suo talento l’ho capito dopo, mentre guardavo il girato: la scena con lei si svolge in una sala d’attesa, io e lei seduti, e aveva intuito che rischiava di apparire solo di spalle, così si piazzò di profilo.
Sveglia.
Sveglissima lei, coglione io che non l’ho sgamata subito.
Quando ha detto: è un successo?
A quel tempo si telefonava ai cinema o si andava a verificare di persona; io chiamai un amico: “Mi accompagni?”. Ci presentammo al Manzoni di Firenze e appena arrivati iniziai a urlare di gioia, e non è metafora, è realtà: c’era la coda al botteghino.
Festa anche per i produttori: 15 miliardi d’incasso.
C’è una frase di Cecchi Gori che mi accompagna da allora; con Ceccherini andiamo a trovarlo e per spiegare se stesso si affida ai ricordi: “Sono di Firenze, nato in via Landucci, vivevo con la nonna e si mangiava in cucina”. Io e Massimo stupiti, come a dire: “Perché, sennò dove?”.
E invece…
Da figlio di un grande produttore aveva la sala da pranzo, ma intendeva sottintendere “sono dei vostri”.
Con il successo, l’invidia?
Il top fu dopo Il ciclone: venni invitato a una festa di cinematografari e nonostante l’invito credevo di essere invisibile: nessuno si è avvicinato, nessuno mi ha salutato, nessuno mi ha guardato, ed è uno dei motivi per cui non ho mai abitato a Roma.
Via dalla Capitale.
Inizialmente dormivo in un residence nel quartiere Prati, poi ho iniziato l’avanti e indietro con Firenze, con i miei amici storici che quando mi vedevano ogni volta sottolineavano: “Uh, è arrivato il regista”, con chiaro tono canzonatorio.
Un rimpianto?
Con Ceccherini desideravamo vincere un David, legarlo al cofano della macchina e tornare così a Firenze.
Ma Nanni Moretti lei lo amava?
Nei primissimi anni Novanta, con Domenico Costanzo, giravamo dei corti; una sera andiamo a un appuntamento in cui Nanni incontrava il pubblico e Domenico, con una faccia tosta incredibile e la vocina fioca, si avvicina a lui e lo invita a casa per vedere le nostre opere. Intorno a noi tutti scoppiarono a ridere, ci prendevano in giro.
Eppure…
Il giorno dopo suona il campanello e ci troviamo Moretti in casa.
Passati 25 anni, quel gruppo ha espresso le giuste potenzialità?
Credo di sì, ci siamo ampiamente salvati da altre fini; (sospira) e il bello potrebbe anche venire adesso…
Perché?
È finito il momento di grande clamore e incassi, ora sento meno responsabilità, meno pressione; adesso ho maggiore libertà e magari posso tornare a lavorare pure con Cecchi Gori. Chissà.
(Sempre gli Audio 2: “È come un giro di lancette che si sa, sovrapposte insieme a ogni ora, ma libere libere che…”).