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 2020  maggio 24 Domenica calendario

Due anni di Giuseppe Conte

Due anni fa era il perfetto sconosciuto. Quel 23 maggio 2018, quando ricevette l’incarico di Governo, Conte veniva ancora confuso con Antonio, l’allenatore (entrambi pugliesi e con il toupè). Ora perfino Trump sa che il nostro premier si chiama “Giuseppi”. E soprattutto adesso nessuno più si metterebbe a spulciare il suo curriculum vitae per vedere se è taroccato o meno: la pigrizia collettiva si affida a Wikipedia, che lo celebra con un ritratto napoleonico.
Lo statista di Volturara Appula, “il primo presidente del Consiglio proveniente dall’Italia meridionale dal 1989″ (all’epoca era De Mita). In realtà Ciriaco, al confronto, fu una meteora; da segretario della Dc resistette a Palazzo Chigi soltanto 466 giorni laddove Conte, senza essere leader di niente, si è già arrampicato a 723, undicesimo nella speciale graduatoria dei premier più longevi. Un altro anno di Governo gli basterebbe per scavalcare in un colpo solo Mariano Rumor, Antonio Segni e Matteo Renzi. Se poi arrivasse in fondo alla legislatura, si piazzerebbe tra Aldo Moro e Amintore Fanfani, cioè nella Cupola dell’Italia post-bellica. Comunque lo si giudichi, l’uomo evidentemente possiede delle qualità che gli permettono di restare a galla, e che sarebbe rozzo ignorare.
Anzitutto Conte ha due santi in paradiso. Il primo si chiama Padre Pio, del quale si dichiara devoto al punto da portarne con sé nel portafoglio l’immaginetta. L’altro protettore, non meno potente, sta sul Colle più alto della Repubblica. Sergio Mattarella ci si è trovato bene fin dal loro primo incontro nel salottino presidenziale, quando avrebbe potuto rifiutarsi di consegnare il Paese all’avvocato del piano di sotto, come pretendevano Di Maio e Salvini, in pratica a un loro prestanome; invece sorprendentemente il capo dello Stato non sollevò obiezioni. Diede via libera incassando un bel po’ di critiche preconcette. Ma c’era forse un perché.
Un giorno si scriverà la storia di questo settennato e si vedrà che Mattarella, con spietata dolcezza, è riuscito a imbrigliare uno dopo l’altro tutti gli aspiranti “caudillos” della politica italiana. Non ha manovrato spregiudicatamente come alcuni suoi predecessori, tuttavia anche lui si è mosso (senza darlo a vedere). Può darsi che in Conte, oltre alle comuni radici cattolico-democratiche, 24 mesi fa Mattarella avesse intravisto il personaggio giusto, l’antidoto che non ti aspetti alle ambizioni di 5 stelle e Lega, con le doti di astuzia, determinazione, ipocrisia e cinismo necessarie per contenere l’onda populista. Sia come sia, Mattarella gli ha coperto le spalle in tutti i passaggi più scabrosi. Così in parte si spiega il mistero della sua resilienza. È fuor di dubbio che, senza un sostegno da lassù, Conte sarebbe già caduto da un pezzo. Non gli sarebbero bastate né l’abilità alla Tarzan di saltare da un’alleanza all’altra, né l’onnipresenza televisiva ai confini del narcisismo su cui il fido Rocco Casalino ha edificato buona parte della sua vasta popolarità.
L’altro segreto di Conte sta nella pochezza dei propri rivali. “Nulla se mi considero, molto se mi confronto”, è un modo di dire risalente a Sant’Agostino. Nel caso del premier, il detto sembra cucito su misura da un sarto. Lui perlomeno ha una professione liberale, una laurea, un riconoscimento accademico e sa come destreggiarsi nei cavilli giuridici. Quando si esprime nella lingua di Shakespeare, che è l’esperanto dei consessi internazionali, non suscita l’ilarità dei suoi più agguerriti rivali. In patria trasmette un senso démodé di educazione che fa ancora presa sulla gente semplice, quella che si spellava le mani per Berlusconi e ora cerca un erede del Cav.
La vera grande risorsa di Conte sta nella mediocrità dei tempi, nel crollo delle ambizioni collettive, nella ricerca spasmodica dei surrogati. Il suo successo politico si riassume in una formula: è il classico monocolo «in terra caecorum». Ovvero, il meno peggio al potere.