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 2020  maggio 23 Sabato calendario

In morte di Gigi Simoni

La prima cosa da dire è che era una persona per bene, molto semplice, gentile, nel senso dell’educato, non del remissivo. Mi dispiace, anche adesso che non c’è più, leggere che sarà ricordato soprattutto per il mancato rigore su Ronaldo nella partita con la Juve. È troppo poco, per quanto grande possa essere stato l’errore, Simoni ha avuto una sua grande vita anche fuori da quella partita. Non è giusto chiuderlo in un episodio e non è giusto nemmeno chiuderlo in una squadra. Simoni ne ha toccate 18, credo sia un record, (Genoa, Torino, Napoli, Inter, ma anche Ancona, Gubbio, Carrarese). Ha vinto sette campionati di B. L’Inter gli dette Ronaldo e lui le restituì una Coppa Uefa vinta a Parigi contro una grande Lazio che scomparve subito. Ero lì quella sera, andai negli spogliatoi solo per vedere gli occhi del mio vecchio amico. Erano raggianti, esausti, una persona non più solo serena, ma finalmente stravolta dall’amore. Aveva vinto qualcosa di grande. Lui sapeva che ne era capace, ma non era mai capitato. Era come avesse rovesciato il suo mondo e l’avesse costretto ad andare dalla sua parte. Va da sé che non durò molto. 
Simoni portava con sé una piccola fortuna amara, capiva la vita, era un maestro, ma non riusciva a pararne tutti i colpi. Ha avuto dolori molto forti, come la morte di suo figlio giovanissimo, e grosse delusioni. Credo che nel calcio la più grande gliel’abbia data l’Inter sette mesi dopo la Coppa Uefa. Era fine novembre, il giorno prima aveva battuto la Salernitana. E quella stessa mattina a Coverciano gli avevano dato la Panchina d’oro per la stagione. Vide arrivare Mazzola con la testa bassa, capì che portava il suo esonero. Sentì l’umiliazione di non essere stato licenziato da Moratti. Così la prese molto male, ma si rese conto presto che se avesse continuato a voler bene all’Inter, gli interisti gliel’avrebbero restituito. Quello sarebbe stato il suo vero ricordo, la sua immagine nella storia. 
Simoni aveva ottant’anni, cominciò nel calcio quando il modo di giocare italiano era appena diventato una scuola. Non ne approfittò mai, ho visto sempre le sue squadre cercare di giocare a calcio, anche le più improbabili. Da giocatore fu per molto tempo un’ala che puntava l’uomo. Ma era intelligente, capiva che non bastava. Così partecipava, tornava, cercava di essere un po’ dovunque. Questo divenne, quello che oggi si chiamerebbe un tutto-campista, molta intelligenza, non troppa corsa, qualche scatto per prendere alle spalle l’avversario. Edmondo Fabbri, suo allenatore nel Mantova dei miracoli e commissario tecnico della Nazionale, lo portò con sé in tre raduni. Fabbri era un signore all’antica, gli avrebbe preferito Gigi Meroni, ma non riusciva a sopportarne i vezzi, capelli lunghi, la gallina al guinzaglio per la città. Credo che il calcio freddo di Fabbri, altra bravissima persona, altra ala, abbia portato a Simoni un senso del gioco razionale e rotondo. Quella voglia emiliana di parlare con le persone, la convinzione che la vita sia in fondo solo una reciproca confidenza rispettosa. 
Era un torinista fin da piccolo che trovò nell’Inter la sua occasione per rimpiangere. Ha dato e avuto amicizia da centinaia di giocatori, dirigenti, arbitri. È stato un maestro di calcio lieve e convinto a cui è mancata la buona stella nell’attimo in cui gli avrebbe davvero illuminato la strada. Ma so che è stato felice, consapevole di sé e della sua saggezza. «Ho rimpianti, certo. Ma è averne che mi convince di aver vissuto una bella vita». Me lo disse una sera a Viareggio pochi anni fa. Faceva ancora calcio e ancora vinceva: col Gubbio dalla C2 alla B. Aveva ragione. L’ha sempre avuta.