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 2020  maggio 23 Sabato calendario

Rileggere Tre donne sole di Pavese

Pettegolezzo e suicidio. Sono gli estremi tra cui si muove Tra donne sole, romanzo breve che Cesare Pavese scrisse nella primavera del 1949. Confluita nel trittico de La bella estate, la storia verrà pubblicata per Einaudi qualche mese dopo. L’intenzione era di raccontare la città come luogo d’esperienza, un determinato contesto sociale, la naturale aspirazione dei giovani a ingannarsi e soffrire. Qui di città ce ne sono addirittura due, e i travagli – o le disillusioni – sono declinati al femminile. 
Tra donne sole si apre con il ritorno di Clelia a Torino «sotto l’ultima neve di gennaio». Siamo nell’immediato dopoguerra, la città prova a mettersi alle spalle la tragedia del conflitto. Uscendo in giro a passeggiare si incontrano case diroccate, quartieri feriti, ma si sente anche nell’aria la consapevolezza che si sta voltando pagina. Clelia è nata a Torino, fa la modista a Roma, dove lavora e vive da poco meno di vent’anni. È svelta, intelligente, emancipata, disillusa quel tanto che basta per farsi rispettare in un mondo di maschi. La casa madre la spedisce nel capoluogo piemontese perché gestisca l’apertura di un negozio su via Po, e questa è l’occasione per l’esercizio di straniamento che tiene in piedi il romanzo. 
Non scendiamo mai del tutto a patti coi nostri luoghi d’origine, ma l’avventura torinese di Clelia trova in un incidente l’occasione per la sua esemplarità. A poche ore dall’arrivo a Torino, sistematasi in hotel, Clelia esce dalla sua stanza alla ricerca della cameriera. Trova un piccolo assembramento in corridoio. Sta succedendo qualcosa. Pochi secondi dopo viene fuori da una stanza vicina una barella su cui è adagiata una ragazza «vestita da sera di tulle celeste, senza scarpe». Si chiama Rosetta, ha tentato il suicidio. La barella, portata via dagli infermieri, scompare rapidamente oltre le scale. La cameriera commenta: «Prendere il veleno a carnevale, che peccato. E i suoi sono così ricchi. Hanno una bella villa in piazza d’Armi. Se si salva è un miracolo». 
Rosetta si salverà, perlomeno questa volta. E Clelia la incontrerà di nuovo. Di mattina la modista si reca in via Po, manda avanti i lavori del negozio, distribuisce ordini, parla sbrigativamente con imbianchini e capimastri. È lei a comandare, ma a propria volta deve rispondere ai capricci di un’invisibile Madame, la titolare della ditta di stanza a Roma. 
Torino, Roma. La prima capitale d’Italia e quella definitiva. C’è sempre stata, tra le due città, una tensione irrisolta e un’ineffabile attrazione. Pavese sfrutta l’espediente di una ditta di moda nonché l’eterno tema del ritorno a casa per dare corpo al confronto. Torino è il centro di Tra donne sole, ma Roma, mai direttamente in scena, esercita la sua influenza come un astro gigantesco. La signorilità sabauda e la chiassosità capitolina, la fabbrica del Paese e il parcheggio del suo ceto medio, l’eterna provinciale che si crede vicina a Parigi e la città dell’eterno potere ridotta a paesone, la falsità cortese e la schiettezza più sboccata, la cupa efficienza e la beffarda inoperosità. 
Clelia è nata a Torino da una famiglia povera, ha trovato a Roma l’occasione per emanciparsi. Adesso è autonoma sul piano economico, indipendente su quello sentimentale, l’autodeterminazione le ha donato uno sguardo più aperto ma forse anche più amaro sulle cose del mondo. Quando, tornata a Torino, va in cerca del suo vecchio quartiere, il sentimento che la muove è duplice: desiderio di ritrovare il passato, sollievo di non farne più parte. Se tuttavia Tra donne sole si riducesse a questo – la contemplazione, nel luogo d’origine, della parte per sempre mancante – sarebbe un romanzo meno interessante di com’è. Il ritorno a Torino di Clelia, dopo gli ovvi conti col passato, si rivela presto una sorprendente discesa in un affollato deserto sociale dove maldicenza, frivolezza, buone maniere, incapacità di sentire gli altri scavano un profondo buco nero. Proprio perché Clelia è nata a Torino, ma è diventata se stessa altrove, è tra le poche ad avere occhi per vedere. 
A dispetto dell’immaginario legato alla Ricostruzione – e alle poetiche vicine al neorealismo – Clelia si immerge in una movimentata vita notturna fatta di party, veglioni, vernissage, amori proibiti, ménage à trois, passeggiate in montagna, rapide gite in Liguria in cui sono coinvolti avventurieri, borghesi, esangui aristocratici, artisti con poca vocazione, ragazze che provano a riscattarsi dall’aria di provincia vendendo la propria anima con discrezione. 
È in questo giro che Clelia conosce la bella Mariella, la cinica Momina, la stravagante Nene, e si imbatte nuovamente in Rosetta. Sono, tutte insieme, le «donne sole» che danno il titolo al romanzo, circondate da uno stuolo di maschi che brillano per insignificanza, tra nuovi dongiovannismi e vecchio patriarcato. Ecco allora che Torino, più vicina all’asfittica Bouville del Roquentin de La nausea che alla città medaglia d’oro della Resistenza, brilla in una luce livida e inquietante. Chi possiede ancora una coscienza, come Clelia, è quantomeno perplesso da ciò che vede, ma sul dolore vince l’istinto di sopravvivenza. Chi, come Momina, ha trovato nell’indifferenza un rifugio e un privilegio, si condanna a passare le giornate foderando di brillantezza il proprio inaridimento. Ma c’è anche chi – e questa è Rosetta – aspirerebbe ancora a un’esperienza autentica, senza avere tuttavia le difese né la forza per opporsi al nulla che avanza. È su di lei che andrà ad abbattersi ciò che Cesare Pavese chiamava «la naturale sanzione sul più colpevole e inerme, sul più giovane».
Romanzo esistenzialista e metropolitano, Tra donne sole attirò non a caso l’attenzione di Michelangelo Antonioni, che se ne fece ispirare per girare Le amiche. Il film restituisce molto bene l’atmosfera angosciosa del libro, concedendosi perfino qualche battuta d’alleggerimento sul rapporto Torino-Roma («a Roma le signore vogliono spendere poco e sembrare molto ricche. Qui invece spendono molto ma vogliono sembrare dimesse»). Molto prima che il lato oscuro del boom diventasse un celebrato oggetto d’indagine (per La dolce vita e La vita agra bisognerà aspettare più di dieci anni), Cesare Pavese ne colse insomma i prodromi mettendo in scena un’oppressiva commedia sociale dove i lustrini piovono sulla tragedia. Alle spalle lo scrittore aveva l’esempio del grande romanzo borghese europeo, ma anche Tenera è la notte di Fitzgerald, che fece tradurre lo stesso anno da Fernanda Pivano («non ho voluto tradurre io i libri di questo scrittore perché mi piacevano troppo»). Al tempo stesso su Tra donne sole si allunga l’ombra di Pirandello, visto come il mondo che volteggia intorno a Clelia si mostra di continuo nella sua più ridicola insensatezza, e visto come la teatralità, ricorso al travestimento, è l’espediente per mascherare il nulla. Non è un caso che Tra donne sole sia ambientato durante le feste di carnevale. 
Se il romanzo affascinò Antonioni, rischiò di insolentire lo spirito razionale di Italo Calvino. «Tra donne sole è un romanzo che ho subito deciso non mi sarebbe piaciuto», scrive Calvino a Pavese il 27 luglio del 1949. Calvino rimprovera a Pavese l’impianto fiabesco innestato sul tentativo di affresco sociale: «Non mi convince la tua rappresentazione dei borghesi. Per scriver bene del mondo elegante bisogna conoscerlo e soffrirlo fino alle midolla come Proust, Radiguet e Fitzgerald. Si scopre dall’insistenza con cui ritorni sul tema, che non è vero che te ne infischi, ma non hai, mi sembra, fatto ancora la scoperta del piglio che devi prendere rappresentando la gente chic». Pavese risponde con virilità due giorni dopo: «Caro Calvino, non mi dispiace che Tra donne sole non ti piaccia. Le ragioni che ne dài sono la trascrizione fiabesca di un tema letterario; un abbozzo di novella di Italo Calvino poi applichi lo schema realistico evocatorio (Proust, Radiguet, Fitzgerald) dell’insussistenza di questo mondo scoperto. Evidentemente questo mondo è un’esperienza dei vari io e questi io sono la vera serietà (non fiaba) del racconto». 
Sin troppo preoccupato della fedeltà mimetica, Calvino non si rende conto che il centro del racconto è il punto di vista di Clelia, a cui Pavese presta i suoi occhiali affinché svelino proprio ciò che sfuggirebbe all’attenzione del naturalista. Allo sguardo di Clelia si sovrappone poi quello di Rosetta, di Momina, di Mariella, ed è così che un già alterato esercizio di realismo crolla in un gioco di specchi capace di far intravedere, al centro del labirinto, il mostro. In apparenza misurata, discreta, elegante, Torino diventa così una città senz’anima, impegnata a colmare di chiacchiere l’incapacità di amare, di restituire il dolore di essere uomini la cui sola cognizione trasformerebbe questa vuota sfilata di abiti sociali in comunità. Se l’unico a cui Pavese concede un’integrità fino a prova contraria è Beccuccio, il capomastro comunista, gli altri personaggi partecipano al ballo di alienazione e perdita di senso che, come tema letterario, terrà banco almeno fino alla fine degli anni Settanta. 
Ciò che forse sfuggiva a Calvino era la profondità con cui Tra donne sole riesce a essere un romanzo sull’incomunicabilità, sull’impossibilità di vivere. Più proviamo a instaurare un rapporto coi nostri simili più ci condanniamo a vederli svanire. Più inseguiamo la realtà più essa si allontana da noi tragicamente. Calvino non si accorse soprattutto che, sofferto davvero «fino alle midolla», questo male di vivere porterà Cesare Pavese, soltanto un anno dopo, in un contesto non dissimile da quello in cui Rosetta viene còlta all’inizio del romanzo. Chiuso in una camera d’albergo, i sonniferi a portata di mano, e un pensiero beffardo ai pettegolezzi del giorno dopo. 
© 2020 Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino