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 2020  maggio 23 Sabato calendario

Intervista a Pierre Lemaitre

Pierre Lemaitre è uno scrittore che mantiene le parola data. In Ci rivediamo lassù, il romanzo che d’un tratto nel 2013, grazie al Premio Goncourt, lo catapultò a 62 anni verso un successo debordante, Louise era già presente. «Aveva dieci anni ed era vittima indiretta della Prima guerra mondiale, con il padre morto nel conflitto e la madre diventata nevrastenica: una bambina silenziosa, carina, che viveva una sorta di storia d’amore con un soldato sfigurato dai combattimenti, lo aiutava a fabbricare le sue maschere». Con il libro appena uscito, Lo specchio delle nostre miserie, terzo e ultimo tomo di una trilogia (che nel frattempo ha visto anche l’uscita di I colori dell’incendio) ecco che Louise ritorna alla ribalta. «In Ci rivediamo lassù avevo scritto che l’avremmo ritrovata negli anni Quaranta. I lettori mica si ricordano di una promessa così lontana… ma l’ho voluta mantenere». È l’eroina di un romanzo che si svolge fra il 6 aprile e il 13 giugno del 1940, alla fine di quella che i francesi chiamano «drôle de guerre»: una «strana guerra», che, dopo l’invasione nazista della Polonia, non arrivava mai. Finché le truppe tedesche entrarono in Francia. E tutto andò a rotoli in tre settimane.
Cosa rappresenta la "drôle de guerre" per i francesi?
«È un conflitto che praticamente non ebbe luogo. Si aspettò un anno, non successe nulla. E poi, in pochi giorni si consumò una catastrofe, un esercito allo sbando».
È un tabù nell’immaginario collettivo?
«Non direi. Lo è, invece, l’esodo della popolazione verso Sud che provocò e che rappresenta lo sfondo storico del mio romanzo. È stato trattato poco nella letteratura: ci sono un romanzo di Irène Némirovsky, uno di Robert Sabatier e un altro di Françoise Sagan. E poi niente. Quella fuga collettiva rimanda a un’immagine di vergogna: la popolazione perse la ragione, fu presa dal panico».
Tutti i suoi personaggi sono coinvolti nell’esodo, anche Louise, l’eroina. Com’è diventata?
«Quando il libro inizia, è una giovane donna ferita. Le sue storie d’amore sono naufragate. E all’epoca, una nubile a trent’anni era una zitella potenziale. Poi ha un orologio biologico che suona molto forte, il desiderio della maternità, ma si rende conto in fretta che non può avere figli. Ecco, nel romanzo Louise corre dietro a un segreto di famiglia, che le permetterà di onorare il desiderio di un figlio: proprio durante quel terribile esodo».
"Lo specchio delle nostre miserie" ruota intorno al tema della maternità?
«Assolutamente. C’è quella della mamma della protagonista, che ha anche un figlio segreto: la maternità della vergogna. E quella impossibile di Louise. La maternità violenta della madre adottiva di Raoul, che lo renderà infelice. Poi Alice non ha figli e non nutre rimpianti per questo, ma alla fine si rivela molto materna nei confronti del marito Fernand e di tutti, intorno a lei. Ci si chiede anche chi diavolo sia stata la madre di uno come Désiré…».
Lui lo ritroviamo avvocato, medico, pilota d’aereo, funzionario del ministero della Comunicazione… Falso, in ogni caso. Com’è nato questo personaggio?
«All’inizio avevo bisogno di un bugiardo. Poi sono andato oltre. Certi scrittori dicono: questo personaggio mi è sfuggito di mano, come se fosse stato lui a redigere il romanzo. Mi piacerebbe che qualcuno scrivesse al posto mio, ma non è possibile. Però il potenziale narrativo di un personaggio può rivelarsi più importante di quanto s’immaginasse. Con Désiré è andata così».
È molto divertente, credo che il lettore desideri che spunti sempre fuori…
«In realtà faccio di tutto perché lo dimentichi, preparo la sorpresa successiva».
Nei romanzi della trilogia (il primo ambientato subito dopo la Grande guerra, il secondo negli anni ’30, questo all’inizio dei ’40) emergono sempre risonanze con i tempi attuali. Quali in "Lo specchio delle nostre miserie"?
«Consiglio a chi legge di aspettare la pagina 353. Lì uno strano prete, che ha organizzato un ricovero per i rifugiati stranieri (perlopiù belgi e lussemburghesi in fuga), spiega che nei grandi periodi di crisi c’è sempre una perdita dei riferimenti morali e il rischio di smarrire i valori umani. Si finisce con l’essere governati dalle proprie paure, dal terrore. Tutto il libro converge su quella pagina, che riecheggia il dramma dei profughi di oggi».
Nel romanzo c’è pure qualcosa della Francia macronista?
«Sì, le fake news che Désiré inventa al ministero, pura propaganda. Per frenare il disfattismo, s’inventa una guerra che non c’è, che i francesi resistono ai tedeschi. E, quando si leggono i giornali dell’epoca, è quello che in effetti riportavano: una menzogna di Stato fabbricata a puntino. Ne abbiamo viste anche in questa crisi del coronavirus. Il Governo era impreparato sulle mascherine e allora hanno detto che non servivano a nulla. Era una fake news. Solo quando hanno ricominciato a importarne dalla Cina, le mascherine sono ridiventate necessarie. Sì, una menzogna di Stato».
Come giudica Macron?
«È il grado zero della politica, arrivato al potere dicendo: non se ne può più, diamo tutto in mano ai tecnici, perché i politici non sono efficaci. Ma poi l’abbiamo vista l’efficienza del suo modello, proprio con la triste vicenda delle mascherine».
Si parla dei suoi libri come di romanzi dalla struttura ottocentesca. Si fa riferimento a Dumas, Hugo, Balzac. Sono proprio i suoi riferimenti?
«Sì, da un punto di vista letterario provengo dal diciannovesimo secolo, perché sono uno scrittore che racconta storie. Quella tradizione fu abbandonata con il «Nouveau Roman», alla metà del Novecento. Si decretò che i personaggi non erano importanti e che non bisognava più concentrarsi sulla trama. Certo, non scriverei come scrivo se non fossi stato un lettore del "Nouveau Roman", che fu trasgressivo, ha avuto la sua funzione. Il mio stile è moderno, ma i miei romanzi sono costruiti su un principio ottocentesco: per raccontare il mondo, bisogna raccontare delle storie».
L’approccio delle serie tv ha un’influenza sul suo modo di scrivere?
«Dato che lo ha sui miei lettori, devo tenerne conto. Ma ha influenzato anche me stesso. Se penso a come ero 25 anni fa, leggendo un libro, potevo accettare di annoiarmi per una sessantina di pagine, prima di abbandonarlo. Oggi me ne sono sufficienti una ventina per dire basta e festa finita. Le serie televisive ci hanno abituato a nuove modalità narrative. Non bisogna adeguarsi a una moda, ma non voglio rischiare di dar vita a un libro noioso».
Lei scrive sceneggiature di film o serie tv tratte dai suoi romanzi. Farà anche soggetti originali?
«No. Trovo interessante riadattare in televisione i miei libri, perché è un altro modo di raccontare la stessa storia. Poi mi permette di capire meglio come sono fatti e di scovare i numerosi errori che ho commesso buttandoli giù. Mi aiuta a scrivere meglio quelli successivi. Sono un romanziere che di tanto in tanto fa lo sceneggiatore, ma non è vero il contrario».
Dosa vuol dire diventare famosi a 62 anni?
«Significa che, quando si è spinti da qualcosa, l’età non ha alcun significato. Vuol dire guardare in faccia uno dei miei lettori, che vorrebbe scrivere un libro e non m’importa quanti anni abbia. E dirgli: "Provaci, vai: ascolta il tuo desiderio". Significa pure non prendersi troppo sul serio. Se il successo mi fosse arrivato a trent’anni, ci avrei creduto. Oggi sono cosciente di essere un buon romanziere, ma non un grande scrittore. Ho frequentato troppo Marcel Proust o Victor Hugo per farmi delle illusioni».
Lei abbandonò la scuola a 15 anni…
«Ero un ragazzo intelligente. Ma i miei genitori, che erano operai, erano segnati dall’idea dell’ascesa sociale attraverso gli studi di quegli anni Cinquanta: un’ingiunzione che mi asfissiava. Sentivo che in loro covava un sentimento di rivincita che io non volevo incarnare. Poi, quasi a quarant’anni, mi sono laureato in psicologia. Ero diventato insegnante, attivo nella formazione degli adulti. Ne avevo bisogno. E ho studiato senza problemi, con passione».