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 2020  maggio 23 Sabato calendario

Intervista a Massimo Popolizio

I versi apocalittici di Giorgio Manganelli attraverso Massimo Popolizio, attore e regista. Il senso della drammaturgia trova vie alternative per esplodere in naturalezza. Popolizio la cerca in modo scientifico questa via altra, non un mezzo qualsiasi con il quale esprimersi a distanza di sicurezza, ma un’alternativa contingente e strutturata per spiegare che al teatro si può arrivare, comunque. Perciò sceglie Centuria, raccolta di piccoli romanzi fiume del grande autore della neoavanguardia, del quale è uscita per Adelphi, a ridosso del lockdown, un pregiato studio. Un Manganelli recensore con alcuni inediti. Popolizio su Centuria ha fatto uno spettacolo in streaming, (su #TdRonline alle 16 giovedì e domenica) senza tradire i canoni, dello spettacolo teatrale. Trenta piccole storie divise in sei puntate da 15 minuti l’una, «una fotografia che ricorda Cipri’ e Maresco, bianco e nero tirato, molto uso del primo piano per restituire il senso di attori ectoplasma che vengono dall’aldilà terrestre». Il titolo illustra l’operazione, Pagine dell’opera di Manganelli all’epoca del Covid. Operazione complicata per sponsorizzazioni e diverse tecniche d’assemblaggio, «un piccolo prodotto da computer e da telefono per una staffetta vocale tra me e gli attori de "Il nemico del popolo", spettacolo che abbiamo bruscamente interrotto».
Ricorda l’ultima replica?
«Resterà indelebile nella memoria di tutta la compagnia. Era il 23 febbraio al Carignano di Torino. Una pomeridiana domenicale con tante persone anziane. Già la chiusura era nell’aria e quando nel testo che parla di batteri e di virus, di acqua inquinata e di nefandezze prima della Grande depressione del 1920 vengono elencati i batteri che ballano il blues, è scoppiato in sala un applauso lunghissimo, come un addio chissà a quando e dove».
Popolizio, un’operazione, questa in streaming, molto complessa.
«Nasce quale risarcimento voluto dal Teatro di Roma che produceva "Nemico del popolo", alla compagnia che interrompeva la tournée a metà. Mi hanno chiesto di inventare qualcosa. Io che odio lo streaming l’ho sfruttato come un’opportunità di lavoro, non come una testimonianza gratuita. Il lavoro è tale se pagato, a prescindere da dove possa esprimersi. Il risarcimento è formale, prendiamo quanto un mese di cassa integrazione».
Perché Manganelli?
«Perché i suoi racconti sono perfetti per il nostro tempo. Paradossali, cinici, umoristici, disperati».
Esempi?
«C’è il sognatore che sogna tutti i sogni degli altri inquilini del palazzo lasciandoli sprovvisti di materia prima; uno scrittore che si accoppia con una scrittrice e fanno figli scrittori che si accoppiano con altri scrittori, una catena infinita che si spezzerà fino all’estinzione del genere; un bambino di 4 anni chiuso in casa che odia i suoi genitori e augura loro tutto il male possibile perché non parlano con lui; un uomo che entra dal tabaccaio per comprare il dopobarba e si accorge uscendo che gli hanno rubato l’universo; il primo uomo morto ma che muore prima di quanto dovuto e non sa dove andare. Una sintassi che è uno zampillo di invenzioni linguistiche eppure quanto mai rispondente all’italiano. Leggendo senti di appartenere a questo paese».
Come immagina possa essere una drammaturgia post Covid? Per forza di cose non potrà ignorare questo tempo.
«Una drammaturgia non post Covid. Vedo una drammaturgia che va tristemente incontro alle esigenze del teatro. Sarà drammaticamente ancorata al reale, assomiglierà a fiction dimenticabili. Di contro e ben venga, si spera ci sia qualcuno che sappia inventare un nuovo modo di raccontare senza retorica».
Si sente il bisogno fisico di tornare a teatro?
«Bisogno forte di riaprire. Non so quanto la gente abbia voglia di tornare in sala presa com’è dalla paura. Ma ammesso che la voglia ritorni, bisogna offrire qualcosa di spettacolare, di grande, di maestoso. Non il monologo striminzito. Altrimenti te ne stai a casa a vederti la tv. Purtroppo ci chiederanno proprio il monologo, al massimo due personaggi, per giustificare la narrazione della riapertura. Ma questo non va dalla parte degli artisti ma solo delle strutture pubbliche. Il Covid ci ha fatto una radiografia, mettendo in luce le nostre mancanze e delle nostre incompetenze».
Che cosa sarebbe bello sperare?
«Che la drammaturgia immaginasse in grande perché siamo pieni di tesi finto contemporanei. Vogliamo dei temi, non dei fatti. Bisognerebbe mettere in scena un libro di filosofia. Non so se il Teatro ha scrittori all’altezza».
Anche la costruzione di uno spettacolo va rivista?
«Certo, costruire usando una comunicazione teatrale fatta in prospettiva della macchina da presa, quello è il futuro, completare ciò che succede dal vivo. Ma non siamo attrezzati ad altro se non al piccolo».
«Nemico del popolo», «Ragazzi di vita», «Furore», i versi eroici e irriverenti del Belli. Le sue scelte sembrano frutto di un vaticinio...
«Non l’ho fatto apposta a scegliere testi così rispondenti a quanto ci sta accadendo. E cosi quando si trattano temi universali che guardano ad altri temi metaforici».