il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2020
Volevo solo inviare una lettera
“Che fa, minaccia?”. Mi avverte la dirigente dell’Ufficio postale che se scriverò lei ha buoni testimoni che ne difenderanno l’onore e la correttezza. E infatti i colleghi in coro la rassicurano: “Abbiamo ascoltato, tranquilla. È una minaccia”.
Ripongo la lettera raccomandata nella giacca ed esco. Sono le 19:20. E anche il quinto tentativo di spedire una lettera è andato buca. Rifletto su cosa ho sbagliato, dove la mia strategia è fallita. Da una settimana ho in mente di assolvere al dovere: inviare una lettera raccomandata. Nell’era Covid ho proceduto con meticoloso ordine, tentando di non lasciare nulla al caso.
Giorno 1. La mia prima preoccupazione è stata di scovare un ufficio aperto. Molti uffici postali hanno infatti ancora i battenti chiusi. Quelli più grandi fungono da hub, e raccolgono il popolo secondo lo schema della fila perpetua. Bisogna essere in salute, gambe forti e tanta tenacia. È una prima scrematura naturale, una selezione darwiniana. Il mio macellaio mi ha appena riferito che si è visto chiedere dei prestiti (“anticipi in conto pensione”) dai vecchietti che non se la sono sentita di sfidare il cordone umano di via Taranto, l’ufficio di Roma est più vicino al mio rione (il Celio) per ritirare la pensione. “Mi chiedono 150 euro di anticipo, ci campano una settimana, nella speranza che il loro sportello riapra. Non ce la fanno ad arrivare fin laggiù”, mi dice. Via Taranto è anche la mia destinazione… Decido anzitutto un sopralluogo esplorativo.
Giorno 2. La fila vista il giorno prima era così lunga che si espandeva fin verso via La Spezia lasciandosi alle spalle piazza San Giovanni. L’ora in cui l’esplorazione era stata compiuta era infame: dieci e trenta del mattino. Il peggio del peggio. Quindi al secondo giorno, come quei topi d’appartamento che verificano le abitudini della vittima, mi sono appostato nell’ora che ho pensato migliore. Alle 14, appena dopo il pranzo. Attesa delusa: ventotto minuti ho resistito prima di lasciare il tronco di una giovane acacia sotto la quale avevo trovato riparo dal sole.
Giorno 3. È la giornata clou. Valuto che debba capire la durata presumibile della fila, conteggiando il tempo di esaurimento. Arrendermi dopo mezz’ora, come ho fatto, è stupido. Quindi arrivo di pomeriggio, perché l’ufficio è aperto fino alle 19 e misuro a passi la distanza che separa l’acacia, dove mi ero accampato il giorno prima, dall’ingresso. Sono 58 passi. Ogni passo un metro. A quell’ora sono 58 persone per una ventina di sportelli. Un’ora in fila o poco più.
Giorno 4. È il giorno più brutto, vicino alla resa. Perché l’acacia, che era il punto da cui partiva la mia valutazione cronometrica, l’ho ritrovata superata all’indietro da un serpentone assai più fitto e drammaticamente più lungo.
Giorno 5. La mia raccomandata non può aspettare più e non è comprensibile questa mia riluttanza al sacrificio che in tempo di Covid è un dovere civile per un cittadino responsabile, come ci dice Giuseppe Conte. La fila è il nuovo tempo sospeso, è l’intervallo che separa i fatti dalle intenzioni. Sono divenuto un esperto. Col cassiere del supermercato è nata un’amicizia e grazie a lui conosco gli orari migliori. Ormai so che tra le sette e le otto della sera si può andare con buone speranze di trovare poca gente. Seguendo la strategia del supermercato ho replicato l’astuzia e sono giunto in via Taranto mezz’ora prima che chiudesse, anzi con trentotto minuti d’anticipo. Davanti a me solo sette persone. Poi sei, cinque, infine tre. Alle 19 sbuca però una intransigente impiegata. L’ufficio chiude. E noi? Gli ultimi tre rimasti in fila? “Ci spiace, chiude. Avete visto il cartello?”. Il cartello? È sistemato all’interno dell’ufficio, nell’atrio di ingresso. Noi siamo all’esterno per rispettare il distanziamento e non affollare, come ci chiede Giuseppe Conte. E siamo l’uno distante un metro dall’altro. Come possiamo leggere un avviso posto all’interno se ci fate restare all’esterno dell’edificio? “È chiuso, non c’è niente da fare”. Scovo nell’impiegato dietro allo sportello una lieve goduria, forse mi sbaglio. Gli chiedo: “Le sembra logico, corretto?”. Mi sorride sadico, sta veramente godendo. Chiedo allora di parlare con la dirigente, cerco il suo nome, “solo la matricola posso darle”, e ripeto la supplica. “Lei sa che alle 18:20 io sono uscita fuori e ho anticipato a tutti…”. Non sapevo, sono giunto alle 18:22. “Stiamo in sciopero rispetto allo straordinario”. Lo sciopero obbliga a staccare un secondo dopo l’orario di lavoro. Fila o non fila. Covid o non Covid. Scioperano i garantiti, coloro che lo stipendio lo ricevono e lo riceveranno. Buffo, no?
Allora è bene rievocare questa piccola via crucis, e scrivere di questa ferocia ritrovata. “Che fa, lei scrive? Che fa, minaccia?” chiede dunque la dirigente impegnata a buttarci fuori dall’ufficio quando ormai sono le 19:20 ed è già tempo di riprogrammare una nuova fila.