Cosa non la convince o non le piace dell’Europa di quest’ultimo ventennio?
«L’Unione europea è figlia del pensiero economico dominante, per cui la crescita si sostiene da sola attraverso la competizione produttiva e la flessibilità. Ma nessuno ha pensato a creare regole comuni in materia di fisco e finanza. Ai miei tempi questi indicatori erano oggetto di studio».
Come si è avvicinato agli studi economici?
«Al liceo mi ero appassionato alla storia del movimento socialista. Volevo studiare qualcosa che avesse a che fare con le scienze sociali, non specificamente l’economia, anche se allora l’economia sembrava la chiave per capire il mondo. Non so quale illuminazione mi abbia portato a iscrivermi a Statistica a Roma: l’ho fatto convinto che avrei avuto gli strumenti giusti per ottenere un paio di cose importanti».
Quali?
«Un background matematico-econometrico che mi ha sollevato da qualsiasi complesso di inferiorità verso gli indirizzi algoritmici che l’economia iniziava a prendere, e poi l’incontro con Paolo Sylos Labini. È stato l’economista che, nonostante il periodo che ho trascorso a Cambridge, ha più influenzato la mia visione dell’economia, a cavallo fra le scienze sociali, storiche e giuridiche».
Accennava al periodo di Cambridge. Come lo visse?
«Noi giovani venivamo bombardati di idee e concetti, coinvolti in dispute che andavano spesso oltre le nostre possibilità di apprendimento. Molto di ciò che ho allora appreso l’ho maturato poi negli anni».
In quella Cambridge tutto ruotava attorno alla figura di John Maynard Keynes.
«Lui era il sole».
Attorno gli giravano personaggi come Sraffa, Robinson, Kaldor. Li ha conosciuti?
«Keynes ovviamente no. Morì nel 1946. Gli altri li ho conosciuti tutti. Era naturale bussare alla loro porta, tenevano seminari informali nella loro stanza o piccoli circoli all’aperto davanti alla mensa della facoltà. Tutti noi, maestri e allievi, sentivamo di essere impegnati in una battaglia culturale e scientifica».
Che però non avete vinto.
«Si è perso a causa dalla capacità di irradiazione che avevano le università americane. E questo nonostante a Cambridge insegnassero, oltre ai nomi che ha fatto, personaggi come Meade, Mirrlees (entrambi premi Nobel), Kahn, Goodwin, Dobb, Pasinetti, Goodhart. Anche i miei compagni di studio erano stimolanti: Salvati, De Cecco, Tarantelli, Vianello per citarne alcuni. Fu per me un periodo fecondo. Poi sono tornato lì d’estate per 23 anni consecutivi».
La battaglia persa cui allude fu quella contro il liberismo?
«Qualcuno ha scritto che la rivoluzione di Keynes e dei keynesiani è restata incompiuta. Beh, è un fatto.
Viaggiavamo su una macchina solida, ma siamo rimasti senza benzina».
Cosa distingue il liberismo classico dal neoliberismo?
«Il primo considerava lo Stato una sovrastruttura dell’economia, ma era anche in molte sue correnti conscio dell’esistenza dei fallimenti del mercato. La visione neoliberista non contempla quei fallimenti. Né ha alcuna velleità di smantellare lo Stato. Ne conserva la forza riorientandola verso lo sviluppo dei mercati nel nome della massima concorrenza. Ma l’uno è figlio dell’altro. Non vogliono che la politica interferisca con l’autonomia dei soggetti economici. Hanno al centro l’individuo, anche se per il neoliberismo l’individuo è soprattutto un consumatore».
I grandi teorici del neoliberismo provengono dalla scuola di Chicago (capofila Friedman) e da quella austriaca (von Mises e von Hayek). Ci sono differenze?
«Gli studiosi liberali troveranno certamente differenze, io li distinguo poco. Però mi sembra che Friedman sia una spanna sopra gli altri; ma Hayek aveva capito che l’internalizzazione era il mezzo per togliere potere discrezionale agli Stati. Oggi parleremmo di globalizzazione. Di von Hayek ho una reminiscenza personale. In uno dei soggiorni estivi a Cambridge — erano gli anni Ottanta — lessi che avrebbe tenuto una conversazione presso i giovani conservatori. Andai ad assistere a quell’incontro. Vidi un distinto e anziano signore in ottima salute».
Di cosa parlò?
«Credo che l’argomento riguardasse la libertà economica. Raccontai l’episodio a Sraffa che molto ironicamente disse “pensavo che Hayek fosse morto da tempo”».
In realtà le sue teorie in quegli anni cominciavano ad essere molto in voga. Quando il neoliberismo ha ridisegnato l’ordine mondiale?
«Quando negli anni Settanta una nuova narrazione conquistò il senso comune. Si cominciò a dire che la crescita mondiale si era fermata per eccesso di statalismo e regole, che in sindacati creavano disoccupazione e che lo stato sociale richiedeva troppe tasse. Furono messaggi semplici che portarono ad affidarsi al mercato e a destrutturare il lavoro riducendo le protezioni. Un’intera classe politica se ne appropriò, Thatcher e Reagan per primi. Per oltre trent’anni si è andati avanti con l’idea che la legittimazione del sistema si fondi sullo slogan there is not alternative ».
Si potrebbe tradurre con “pensiero unico”. Perché il modello keynesiano è andato in crisi?
«Stava cambiando la composizione sociale, più frammentata e meno solidale. L’egemonia culturale ha fatto il resto».
Egemonia culturale in che senso?
«Come impasto di convinzioni comuni e di scelte ideologiche per cui alla fine non c’è nessuna differenza tra la libertà dell’individuo e la libertà del mercato».
Che ne è della democrazia a questo punto?
«Nessuno ne farà a meno, neppure le economie a sfondo neoliberale. Basta svuotarla. Se si erodono i contrappesi al potere economico la democrazia rischia di diventare un orpello».
Oggi si parla degli effetti regressivi della globalizzazione.
«Ne ha avuti e ne sta avendo in Occidente, non in altre parti del mondo. Nel tempo ci stiamo accorgendo che dentro questo fenomeno fondato sulla fede assoluta nella libertà del mercato siamo dei perdenti. Usa in primis. Ciò che sta incrinando la forza del neoliberismo non è tanto la crisi in sé ma l’incapacità delle politiche di cambiare dopo la crisi e affrontare i nodi sociali e gli assetti del capitalismo. Il rischio, alla fine, è che esploda una indubbia ribellione popolare».
Allude agli effetti economici e sociali del coronavirus?
«Lo scenario mi pare abbastanza drammatico. Se ci fermiamo all’Italia, i cambiamenti che una situazione del genere reclama sono enormi. Non ci si può accontentare di una politica del giorno per giorno, occorre una visione ampia del futuro».
Cosa vuol dire?
«La crisi sta riportando al centro la forza e la centralità
dello Stato: non solo garante dell’equilibrio sociale, ma anche dominus dell’economia».
Ma lo Stato interventista non ha dato grandi prove di sé e con le forze politiche che abbiamo, la macchina amministrativa pletorica e complicatissima, i debiti che pesano su tutti noi, è molto difficile venirne a capo.
«È una sfida enorme, ma chi può guidare queste trasformazioni se non uno Stato ripensato nel profondo?
La politica dovrebbe avere questo ruolo virtuoso. Quanto all’esplosione del debito è fondamentale che l’Europa prenda consapevolezza del bivio su cui siamo tutti e azzeri i debiti nati in conseguenza della pandemia».
Un ritorno a Keynes?
«In un certo senso sì. Keynes aveva ben chiara la responsabilità pubblica non solo nella gestione dell’occupazione ma anche negli investimenti. Stavo rileggendo in questa fase difficile il suo saggio Le conseguenze economiche della pace. Andrebbe rimeditato. Quel che accadde alla Germania dopo la prima guerra mondiale, una specie di “pace cartaginese”, se si verificasse oggi con l’Italia sul banco dell’accusa (insieme a Spagna e forse Francia) distruggerebbe l’idea stessa di Europa».
Come ha vissuto questi mesi di clausura a causa della pandemia?
«Male. Mi sono perso, non sono riuscito a trovare la concentrazione né a darmi un progetto. Le reazioni individuali non sono dissimili da quelle di tanti altri intellettuali. Tuttavia, non mi fanno pensare a come il coronavirus ci cambierà individualmente — di questo sono pieni social e giornali — ma a cosa può derivarne nell’organizzazione della società».
Dove è nato?
«A Roma, nel quartiere popolare di Testaccio, da genitori salentini. Mio padre era un dipendente statale, mia madre casalinga. Una famiglia in tutto e per tutto piccolo borghese, che teneva però a che i figli studiassero. Quando i miei abbandonarono Testaccio alla fine degli anni ’50, il tratto di via dove ero nato non era ancora asfaltato e vi si poteva giocare a pallone indisturbati. L’ambiente da cui provengo, gli amici dell’adolescenza, alcuni dei quali non finirono neppure le scuole secondarie, l’assenza di veri e propri stimoli, un mediocre liceo che ho frequentato, mi inducono a pensare di aver forzato il destino».
Ho letto che Draghi è stato un suo allievo.
«No, Draghi è stato allievo di Caffè e di Modigliani al Mit.
Io sono andato in cattedra una tornata prima della sua ed ero già in Commissione di concorso la volta dopo, quando si è presentato. Ovviamente passò per merito proprio, né mio né di Caffè che pure era in commissione».
Che ricordo ha di Federico Caffè?
«Ho conosciuto bene Caffè. Quando finiva la lezione spesso lo riaccompagnavo a casa in macchina. Abitavamo vicini. Rimpiango di non aver tenuto un “diario” delle cose che mi diceva lungo il tragitto. Giudizi acuti e sereni non solo sull’economia. È stato un keynesiano consapevole di dove si collocasse il potere e di come cercare di contrastarlo. Fu un uomo amabilissimo, interamente votato alla formazione dei giovani. Ha vissuto per l’università».
Che idea si è fatto della sua scomparsa?
«Anche se non ci sono prove, non escluderei che si sia ritirato in un convento. Ricordo un nostro ritorno in macchina. Caffè era turbato per la morte della sua tata, che per lui fu una specie di madre. Gli chiesi che cosa avesse. Mi rispose che non riusciva a smettere di pensare a come la morte trasformi fisicamente un individuo. Non c’è nessuna bellezza nella morte, aggiunse. È il motivo per cui non credo abbia mai pensato al suicidio. La verità è che l’invisibile, qualunque forma assuma, ci disorienta e ci attrae».
Abbiamo iniziato parlando del potere invisibile dell’economia.
«Ritengo sia stata una delle caratteristiche del neoliberismo. Ha creato nel tempo un potere che non era riconducibile ai dettami della rappresentanza. Una sorta di forza oscura che ha eroso il potere della politica.
Nessuno poteva prevedere che un altro nemico invisibile, il coronavirus, ne avrebbe insidiato il dominio. Non è eufemistico dire che da un disastro all’altro si aprono nuove opportunità».