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 2020  maggio 23 Sabato calendario

Intervista a Geoff Dyer

Geoff Dyer, ma lei che a quasi 62 anni ha viaggiato tanto e tanto ne ha scritto — “Amore a Venezia. Morte a Varanasi”, “Sabbie bianche”, solo per citarne due — dove andrà appena il coronavirus ci darà, si spera, tregua?
«Non ci ho pensato… a dirla tutta mi piace questo “lockdown”, questo essere reclusi».
Ma come?
«Dopo tanti viaggi, mi sento un po’ come i miei genitori che non avevano mai preso un aereo prima di morire».
“Haworth è la mia Mecca!”, direbbe Emily Brontë. Ma non pensa nemmeno a un posto in particolare?
«Potrei dire “ah, mi piacerebbe tornare in Islanda!”. Invece, più del viaggio in sé, immagino una particolare esperienza da vivere. Quando si pensa solo alla “fisicità” di un viaggio, l’emozione sparisce appena si arriva a destinazione. È la delusione, il “disappointment” dell’escursione, in noi inglesi ancora più marcato peraltro. Invece, quando si viaggia, conta l’obiettivo, il desiderio allegato a esso. In tal senso, ciò che mi manca è l’esperienza umana».
Ossia?
«Girare il mondo e incontrare i miei lettori.
Un’esperienza cruciale, e umana, per la mia felicità».
Geoff Dyer, di Cheltenham, come ogni anno è tornato oltremanica da Venice Beach, insieme alla moglie Rebecca Wilson, curatrice della Saatchi Art di Los Angeles. In realtà potremmo incontrarci di persona. Non nella sua casa di West London ma, come predica Boris Johnson, in un parco di una Londra sempre più calda e assolata, sebbene a sei piedi o due metri di distanza. Ma il grande scrittore inglese e bardo della periegesi contemporanea — seppur la tassonomia “letteratura di viaggio” lo irriti — si sente ancora in quarantena. Dunque, parliamo al telefono.
E insomma, Dyer, causa Covid-19 pare che il viaggio sia morto. Oppure è una “notizia fortemente esagerata”?
«Chissà per quanto tempo lo sarà. Ma, in suo luogo, almeno prolifererà il viaggio nella scrittura e nella letteratura. Sarà più vivo, affascinante. Risorgerà come non mai».
Come sarà la letteratura di viaggio nell’era del coronavirus?
«Non mi piacciono queste etichette. Credo che tutta la letteratura, in sé, sia di viaggio. Perché ci trasporta, sempre: in un’altra persona, nella mente di un altro scrittore, in un altro luogo. Adesso abbiamo l’occasione di riscoprire anche vecchi romanzi che forse possono farci viaggiare più di altri».
Per esempio? Conrad, Kerouac, Theroux, Naipaul?
«Thomas Cook, le spedizioni al polo Sud, la montagna incantata di Annapurna di Maurice Herzog e La morte sospesa di Joe Simpson. Storie di sopravvivenza, un po’ come oggi col coronavirus.
Oppure Danubio di Claudio Magris. Perché a casa ci immedesimiamo di più. Perché vogliamo sempre viaggiare, anche mentre viaggiamo».
In che senso?
«Non è un caso che in vacanza leggiamo di più di quando siamo a casa. Oppure, penso a Rebecca West e al suo viaggio in Jugoslavia Black Lamb and Grey Falcon, a Mare e Sardegna di D.H. Lawrence.
Ma il luogo è anche un mezzo per raccontare molto altro, e allora penso a La prima guerra del football di Ryszard Kapu?ci?ski o a I Nomi di Don Lillo».
Ma, come ha scritto lei stesso tempo fa, non chiamiamoli “libri di viaggio”. Sarebbe come dire che Miles Davis è solo jazz.
«Esatto».
Davis sfornava album come “Directions”. Lei vuole dare direzioni di scrittura?
«Ripeto, non mi ha mai interessato il genere della letteratura di viaggio in quanto tale. Perché tutti quei libri e romanzi ampliano troppo i nostri confini per ingabbiarli in una simile etichetta. Ma certo, visto che ora non potremo più viaggiare per un po’ di tempo, la qualità della scrittura sarà ancora più importante dell’esperienza in sé. Come nelle Città invisibili di Calvino».
E quindi conterà molto di più anche la fiction, la fantasia?
«Possibile che la fiction prenda il sopravvento nel viaggio. Anche nei miei libri si intrecciano elementi fattuali con altri inventati. Inoltre, in un’epoca nostalgica come quella del coronavirus, le nostre reali esperienze passate potrebbero acquistare ancora più valore. E così potremmo rielaborare e riscoprire molto di più di noi stessi».
Prima del Covid-19, per molti il viaggio era anche una fuga dalla realtà quotidiana. Ora il viaggio potrebbe al contrario diventare la realtà, un po’ come Gauguin a Tahiti?
«Forse. Dipenderà dall’evoluzione della pandemia. Di certo, il coronavirus potrebbe significare anche la fine del turismo di massa, già sotto accusa poco prima che esplodesse il Covid-19. Almeno le crociere non arriveranno più al centro di Venezia, che come Barcellona e molte altre città travolte da fiumane di turisti, ora torneranno a respirare».
E magari il turismo tornerà a essere più autentico.
«Direi di sì. E anche più elitario, visto che nel prossimo futuro le vacanze saranno molto più costose di qualche mese fa, in un contesto di depressione e privazioni economiche. Tornerà a esserci un solco tra chi si metterà in viaggio e chi non potrà farlo, che quindi viaggerà sempre più con la mente».
Lei ha scritto che per un pellegrino musulmano a La Mecca è impossibile l’anticlimax nel
raggiungimento della meta, mentre…
«…mentre per il viaggiatore laico la delusione è molto frequente, anzi scontata».
Forse oggi, visto il “mondo nuovo” che ci attende e gli spostamenti molto meno frequenti, l’esperienza del viaggiatore laico potrebbe diventare proto-religiosa?
«No, affatto. Quando tornerà a pieno regime, il viaggio diventerà estremamente edonista, un’esplosione di piacere. Perché, vista la sua attuale rarefazione, si cercheranno esperienze sempre più grandi, un po’ come nel XX secolo quando l’apice erano le Piramidi d’Egitto o ancora prima i Grand Tour. Sarà l’opposto dell’esperienza religiosa».
O forse sarà un atto d’amore.
«Dei viaggi mi hanno sempre entusiasmato l’amore, il romanticismo, il sesso che hanno naturalmente in circolo. Ora tutto questo per molte persone non sarà più possibile e per diverso tempo. Insieme al viaggio perderemo anche il suo inimitabile “romance”. E forse persino l’amore non sarà più lo stesso».