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 2020  maggio 22 Venerdì calendario

Il problema dei processi con il Covid

Dopo aver pesato in 8 chili di carta le «linee guida» per decriptare i processi celebrabili o rinviabili, oggi a Roma i penalisti faranno il gesto di restituire al presidente dell’Ordine degli Avvocati la toga, «ormai inutile visto il numero esiguo di processi effettivamente celebrati» nella teorica ripartenza dopo la chiusura semi totale (escluse urgenze) da marzo all’11 maggio. E pure i civilisti lamentano: «C’è stato un equivoco: i protocolli dovevano servire a gestire l’organizzazione, ma ora ci troviamo con 200 protocolli che di fatto sono diventati 200 codici di procedura civile...». 

Anche perché – di fronte all’imperativo di evitare assembramenti e tenere distanze di sicurezza – si fa presto a dire smart-working. A Milano, dove i pm sono «invitati a recarsi in ufficio non più di tre giorni alla settimana», anche ai cancellieri è raccomandato di essere «presenti al 30% per un totale di non più di 2/3 giorni», uno per stanza, perché «il primario interesse» resta «lo svuotamento fisico di uffici e corridoi», nella convinzione che comunque «l’utilizzazione massiva dell’informatica assicuri la piena efficienza dell’Ufficio». Ma l’indicazione delle circolari del ministero di privilegiare il lavoro da casa si scontra in concreto, a detta del presidente del Tribunale, soprattutto con il fatto che i cancellieri, «nonostante le richieste reiterate al ministero nel corso del tempo dai capi degli Uffici giudiziari di tutto il Paese, non hanno accesso ai registri di cognizione civile e penale», con il risultato che «si sono già determinati un forte accumulo e vari ritardi». 
Non aiuta lo schizofrenico pendolo legislativo sul processo telematico a distanza: prima, nella fase di chiusura totale, è stato introdotto come unica possibilità di fare almeno le convalide degli arresti e le direttissime (arrestato in caserma, avvocato in studio, pm in ufficio, giudice in aula); poi il partito dei pm si è fatto fare un emendamento governativo che estendeva il «remoto» persino alle più delicate istruttorie; poi, a distanza di appena 8 giorni, il contropartito degli avvocati si è fatto fare un opposto decreto legge assai limitante fuori dai casi di consenso. E in più pesano gli ostacoli pratici. Come la risposta ai giudici che segnalano ricorrenti problemi di continuità della connessione Teams («il problema è noto e si sta riscontrando a macchia di leopardo sull’intero territorio»). O come le difficoltà, segnalate dai giudici ai pm milanesi, di organizzare l’udienza a distanza se la trasmissione dei fascicoli del pm manca o avviene troppo a ridosso. 
Gli sbalzi locali, anche in una stessa regione, sono notevoli. A Bergamo l’Ufficio successioni ha già tutto esaurito sino a dicembre, Busto Arsizio e Como macinano processi quasi in normalità. Ma la media nazionale, salvo le urgenze, svolge processi dall’agevole logistica, con poche parti in aula o semplici incombenze eseguibili a distanza su consenso dei legali: quasi tutto il resto viene rinviato. Bologna – tra le sedi più organizzate – sta riuscendo a fare in aula-bunker l’Appello di ’ndrangheta Aemilia, e Palermo l’Appello della Trattativa Stato-mafia. Ma lo schema-tipo sono le udienze di giugno annullate a Milano nel processo Eni-Nigeria: requisitoria nella solita aula no, perché le norme anti-virus non fanno stare tutti; l’aula-bunker neanche, perché (sebbene per tutto giugno vi siano prenotati processi) il pm non si sente rassicurato dal ricircolo dell’aria; un po’ in aula e un po’ a distanza su Teams nemmeno, perché gli avvocati vogliono ascoltare di persona; il cortile all’aperto è un miraggio del pm. Persino ormai più dell’impronunciabile parola – amnistia – che inizia a essere usata dal presidente del Tribunale di Pavia: «Prosciugato l’arretrato in 5 anni, ora per andare in pari calcolo 3 anni: l’amnistia, per quanto impopolare, è una necessità». «A costo – concorda su Avvenire il procuratore aggiunto di Torino, Paolo Borgna – di provocare, oggi, qualche piccola ingiustizia che servirà però a evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie».