la Repubblica, 22 maggio 2020
Andrej Sakharov e l’ultimo segreto di Chernobyl
«Attenzione, attenzione, fidati compagni. In seguito a un incidente alla centrale di Chernobyl la quantità di radiazioni nella zona è aumentata sopra la norma. Grazie al Partito Comunista e alle forze di polizia sovietiche, le misure di sicurezza sono state prese. Per una completa sicurezza della popolazione è necessario evacuare la città di Pripyat. Per favore rimanete calmi, e chiudete tutte le finestre». È la prima reazione ufficiale del potere sovietico alla catastrofe di Chernobyl, diffusa dagli altoparlanti sul tetto delle auto dell’esercito in tutta l’area contaminata, il giorno dopo l’esplosione, all’1, 23 minuti e 45 secondi del 26 aprile 1986. Nel resto del Paese la notizia si saprà col tam tam dei sussurri popolari, come capita nei regimi totalitari che nascondono, dosano o confondono le informazioni. Radio Mosca la sera del disastro parlerà brevemente di “avaria”, confinando il più grande disastro nucleare della storia al quarto posto del notiziario, radio Kiev lo sposterà all’undicesima posizione, Vremja, il telegiornale ufficiale di Stato, alla ventunesima. Gorbaciov parlerà di Chernobyl 18 giorni dopo.
Oggi veniamo a sapere che un uomo tentò di forzare il muro di silenzio. È Andrej Sakharov, il fisico che prese parte al programma della prima bomba termonucleare sovietica, una delle voci più deboli e insieme più autorevoli dell’impero sovietico: inerme davanti all’arbitrio del Cremlino, che nel 1980 lo fa arrestare dal Kgb per la sua battaglia in difesa dei diritti umani e lo manda al confino a Gorkij; potente nella sua denuncia degli abusi e degli errori del potere di fronte al mondo, con l’autorità del premio Nobel per la pace che gli fu assegnato nel ’75, anche se non poté ritirarlo. Tra i documenti classificati “Sovershenno Secretno” (Top Secret) ora resi pubblici dal National Security Archive americano spunta infatti una lettera che Sakharov indirizzò il 4 novembre 1988 al “Samyj Uvazhayemyj” (lo stimatissimo) Mikhail Gorbaciov, per protestare contro l’“ostruzionismo” alla pubblicazione sulla rivista letteraria Novy Mir del Taccuino di Chernobyl, un racconto del fisico Medvedev a cui il premio Nobel aveva scritto la prefazione.
Un intervento in difesa della libertà di espressione, dunque. Ma non solo. Sakharov scrive al Segretario Generale del Pcus due anni e mezzo dopo il disastro nucleare, rivelato dai sensori svedesi e poi ammesso dal Cremlino: e chiede che oltre alla nube radioattiva si spazzi via la nuvola di reticenze, compromissioni, complicità che impedisce all’opinione pubblica di giudicare compiutamente le responsabilità dell’incidente, e di capire se esistono garanzie di sicurezza per il futuro. «Io sono convinto – dice la lettera – che la gente è non solo capace, ma obbligata a conoscere tutte le circostanze del disastro di Chernobyl, contrariamente ai trucchi di censura dei dipartimenti, con i loro interessi e le loro ambizioni. Ogni restrizione danneggia sia la nostra società che la memoria delle vittime, e il morale dei sopravvissuti. Nascondendo i fatti, noi confermiamo la possibilità che si ripetano. È illogico, anche perché abbiamo riferito ogni cosa all’Agenzia atomica internazionale: perché dunque la comunità internazionale sui nostri eventi può sapere più di quel che sa la nostra popolazione? Se noi nascondiamo i nomi dei responsabili della catastrofe (che ora esercitano la censura) copriamo già altre possibili complicazioni negli impianti nucleari».
Sakharov spiega al Capo del Cremlino che nell’86 lo ha liberato dal confino, riabilitandolo, perché non si fermerà in questa battaglia: «Io credo che la pubblicazione di questo racconto sarebbe un buon servizio al nostro Paese, aumenterebbe la trasparenza e la consapevolezza della società sovietica, elementi indispensabili al suo sviluppo». All’uomo della perestrojka, dunque, il premio Nobel ricorda i doveri della glasnost, la trasparenza, e gli obblighi che derivano dalle promesse di apertura alla società civile.
Ma un altro documento desecretato rivela i limiti della glasnost all’interno dello stesso vertice sovietico, e le responsabilità del sistema nel disastro.
È il verbale di una riunione del Politbjuro del Pcus del 3 luglio 1986, per ascoltare il rapporto della commissione d’indagine governativa su Chernobyl. Qui per la prima volta dai segreti del Cremlino emerge che dopo tre mesi dalla catastrofe il potere sovietico sapeva tutto, e avrebbe potuto informare la popolazione. In particolare sapeva che l’esplosione è stata causata da pesanti violazioni alle regole di sicurezza, ma anche da pesanti errori nella progettazione del reattore.
Lo denuncia, a porte chiuse, il presidente della commissione, Boris Shcherbina, chiamando in causa «negligenze, trascuratezze, errori, mancanza di disciplina, impreparazione», col risultato che l’ingegner Dyatlov, alla guida del test di controllo quella notte, «prese la decisione di non fermare il reattore prima che la turbina fosse spenta, nonostante lo imponesse la procedura. Le valvole vennero chiuse all’1, 23,04. Lo stop al reattore è di 36 secondi dopo. All’1,23,46 l’esplosione». Col sistema di raffreddamento d’emergenza incredibilmente chiuso, operazione “categoricamente proibita” quando il reattore è operativo.
«Tutto questo non è causato da qualche situazione straordinaria che si è sviluppata all’improvviso, causando stress e confusione. No: in una condizione assolutamente normale, c’è stata una serie di imperdonabili violazioni ai regolamenti».
Ma a ciò si aggiunge per la prima volta la rivelazione degli errori nella progettazione del reattore, «le imperfezioni nel sistema Suz di protezione, nel controllo automatico, nel sistema di chiusura quando si scende a una potenza inaccettabilmente bassa». Non solo: si scopre che in 55 anni il sistema nucleare sovietico ha registrato 1042 emergenze, di cui 381 in centrali con il reattore RMBK e 104 a Chernobyl, di cui 35 imputabili a “negligenza”. Le inchieste non hanno portato a nulla.
Il verbale del Bjuro rivela via via lo stupore e poi la rabbia di Gorbaciov durante la discussione: «Ma perché la competenza e la disciplina a Cernobyl erano così basse?».
«Com’è possibile che le prime informazioni sulla nube radioattiva ci siano venute dagli svedesi?». «Perché queste grossolane violazioni delle regole?». «Perché avete alzato le spalle davanti a tutti quegli incidenti e a quei segnali?». «Voi mi sorprendete: tutti ammettono che il reattore era pericoloso e voi venite qui a difendere il vostro orgoglio professionale?». «Voi agite come un pivello, cercando di nascondere fatti oggettivi». «State dicendo che tutti hanno sbagliato, solo voi no». «Ma insomma, chi è responsabile?».
Sakharov dunque aveva ragione. Davanti all’onnipotenza totalitaria del Politbjuro, tre mesi dopo Chernobyl, appare chiara la rivelazione che il sistema ha la responsabilità del disastro, ma soprattutto arriva la conferma che il gigante sovietico ha i piedi d’argilla. È la convinzione che spingerà Gorbaciov sulla strada delle riforme incompiute per la resistenza del partito, ma obbligate per cercare di dare un futuro all’Urss. Questa convinzione lo porterà la sera prima del funerale ad inchinarsi davanti alla bara dello scienziato dissidente, esposto sotto un lenzuolo bianco all’Accademia delle Scienze, con la marcia funebre suonata dalla banda di quell’Armata Rossa che Sakharov aveva criticato per la guerra in Afghanistan.
Confusamente, l’ultimo Segretario Generale sentiva di aver bisogno del grande eretico, che con le sue domande scomode al potere era la vera coscienza dell’epoca.