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 2020  maggio 22 Venerdì calendario

Svezia e Corea, il Pil crolla anche senza lockdown

È stata la domanda che ha tormentato qualunque governo. Esiste un compromesso possibile, un trade off, tra le esigenze della salute e quelle dell’attività economica? È obbligata la scelta del confinamento totale o sono praticabili soluzioni meno drastiche? La risposta è stata diversa, da Paese a Paese; ma il crescente fastidio per le esasperazioni del lockdown stanno ora seminando dubbi anche tra i più cauti.
Forse però la scelta non è così netta. I due aspetti – salute e reddito – non possono essere messi su due piatti della stessa bilancia. Non solo perché sono radicalmente (moralmente, si potrebbe dire) diversi, ma anche perché uno di loro, l’attività economica, si sta rivelando elusivo. Tenere le economie “aperte” o “semiaperte” non mette al riparo da una brusca contrazione di produzione, reddito, occupazione, domanda.
Sul piano sanitario, non sembra che sia rilevante l’apertura o la chiusura dell’economia. Mantenere bassi contagi, ricoveri e decessi sembra richiedere una strategia più complessa che un lockdown più o meno rigido. Nessun Paese, invece, sembra sfuggire al rallentamento economico. Un po’ perché è il commercio globale a contrarsi, un po’ perché la prudenza dei singoli individui spinge a cambiare abitudini, indipendentemente dalle imposizioni dei governi.
La Svezia è un esempio importante. Il peggioramento delle condizioni sanitarie – il Paese conta 3831 morti su 31.523 casi – non è stato “premiato”, se si può usare questa parola, con una tenuta economica. Il pil lordo, nel primo trimestre – che non tiene ancora conto del periodo di maggior diffusione dell’epidemia – è già sceso dello 0,3% trimestrale. Poco? Nei due mesi successivi, la disoccupazione è salita fino all’8,4%, proseguendo un trend iniziato a gennaio 2018, quando il tasso era al 5,7%.
Non è una vera sorpresa, in realtà: la Svezia è un Paese molto aperto dal punto di vista commerciale e se l’epidemia (e in buona parte il lockdown) è globale, è difficile restare davvero isolati: le esportazioni svedesi, a marzo, sono calate dell’11,9%. Neal Kilbane, di Oxford Economics, prevedeva quindi a inizio maggio una flessione del Pil del 6% per questo secondo trimestre, ma non manca oggi chi si aspetta un risultato anche peggiore.
La debolezza non deriva solo dall’esterno, però. Anche in assenza di un vero confinamento, molte famiglie hanno ridotto gli acquisti: la flessione del 5,4% mensile (-3,2% annuo) dei consumi riflette soprattutto la brusca contrazione delle spese per i servizi offerti da bar, ristoranti, alberghi e altre strutture ricettive: sono calate del 27% mensile (-28,4% annuale a prezzi invariati). Sono però scesi anche gli acquisti di abbigliamento e scarpe (-34,7% annuo), di mobili ed elettrodomestici (-8,1%), trasporti e autoveicoli (-7,6%) e di beni e servizi per ricreazione e cultura (-3,9%). Solo alimentari e telecomunicazioni hanno evitato un crollo più brusco dei consumi. Gli svedesi si sono “chiusi in casa”, anche se il governo non lo imponeva.
Taiwan è un Paese molto diverso dalla Svezia. Qui i tassi di risparmio sono altissimi, come in tutta l’Asia orientale, dove le catastrofi naturali sono più frequenti e il welfare più debole. Un’epidemia, inoltre, non è certo una novità. Eppure le cose non sono andate diversamente. Il Pil nominale, su base trimestrale, è calato del 6,4% mentre quello reale ha frenato, su base annua, fino all’1,54% il ritmo più lento da quattro anni. Anche in questo caso, a parte la flessione dell’export – iniziata a marzo (-1,2%) e proseguita ad aprile (-21,5%) – si è assistito a un forte calo delle vendite al dettaglio, che si è rivelata molto forte per il settore alimentari e bevande, venduti anche da bar e ristoranti (-18,6% annuo a marzo e -21.9% ad aprile).
È uno schema, questo, che si ripete anche per altri Paesi. La Corea del Sud ha visto il Pil calare dell’1,4% nel primo trimestre, malgrado una flessione contenuta dell’export nel solo mese di marzo (ma ad aprile è crollato del 24,3% annuo), quando le vendite al dettaglio già risultavano in flessione del 4,8% annuo (passato al -8,1% in aprile). Il secondo trimestre dovrebbe quindi risultare peggiore, e di molto, del primo. Il caso del Giappone è meno significativo perché l’economia era già in difficoltà nel quarto trimestre 2019 ed è difficile quindi separare l’effetto dell’epidemia da altri fattori.
In tutti in questi casi, come in quello di Singapore e di Hong Kong – che hanno introdotto forme di confinamento limitate e in ritardo – il peso dell’export e quindi della domanda estera è molto forte. Pure Paesi meno dipendenti dall’export come l’Indonesia – dove le vendite all’estero superano appena il 20% del Pil – hanno però visto calare il Pil del primo trimestre (-0,7%), anche se la disoccupazione è aumentata marginalmente nei settori colpiti dall’epidemia.
Il responso finale arriverà con il secondo trimestre, che però si preannuncia per tutti più duro del primo. Non sembra quindi che il triste, e un po’ assurdo, calcolo immaginato da molti – un morto corrisponde a uno, dieci o cento disoccupati in meno – possa avere un senso.