Corriere della Sera, 22 maggio 2020
La figlia abbandonata di Pearl S. Buck
Un giorno «mi capitò di prendere la sua piccola mano destra per guidarla nello scrivere una parola. Era bagnata di sudore. Le presi entrambe le mani, le aprii e vidi che erano bagnate. Mi resi conto che la bambina era sottoposta a un’intensa tensione, che faceva del suo meglio per compiacermi sottomettendosi a cose che non capiva minimamente, col solo desiderio angelico di accontentarmi. Ma non stava davvero imparando qualcosa».
Toglie il fiato, il racconto di come Pearl Buck precipitò nella disperata consapevolezza che la figlioletta Carol aveva un grave ritardo mentale. Definitivo. «Avevo visto da ragazza un solo bambino difettoso, il piccolo figlio di un missionario, e lui non aveva fatto alcuna impressione su di me oltre a quello di amore e pietà», scriverà. «Nessuna giovane madre avrebbe potuto essere meno preparata di me».
Nata a Hillsboro, nel West Virginia, nel 1892, figlia di un missionario presbiteriano, Absalom Sydenstricker, che nel 1880 si era trasferito con la moglie Caroline in Cina, fatti salvi lunghi ma rari ritorni in patria, Pearl era cresciuta lì, in quel Celeste Impero ormai agli sgoccioli di una storia antichissima. Lì aveva imparato a leggere e a scrivere in inglese e in cinese, lì aveva conosciuto l’estrema povertà e la grande ricchezza umana degli abitanti, lì aveva studiato prima di tornare in America per frequentare il college e poi di nuovo per laurearsi in lettere alla Cornell University di Ithaca, New York.
La base, però, restò per quasi quattro decenni la Cina. Dove nel 1917 Pearl sposò John Lossing Buck, lui pure missionario, esperto di tecniche agricole, con cui si spostò per motivi di studio in regioni lontane per rientrare infine a Nanchino. Dove nel maggio 1920, esattamente 100 anni fa, la scrittrice che col romanzo La buona terra avrebbe vinto nel 1932 il premio Pulitzer avviandosi a vincere nel 1938 l’ancor più prestigioso Nobel per la letteratura, diede alla luce Caroline Grace. Carol. La sua gioia, la sua croce.
«Ricordo che aveva tre mesi e giaceva nel suo piccolo cestino sul ponte di una nave – scriverà —. L’avevo portata lì per prendere l’aria del mattino mentre viaggiavamo. Le persone che passeggiavano sul ponte si fermavano spesso per guardarla e il mio orgoglio cresceva mentre parlavano della sua insolita bellezza e della intelligenza dei suoi profondi occhi blu».
La richiesta di silenzio
«Lo sopporto perché devo, ma non sono rassegnata. Non parlare di lei. E risparmiami»
Non era proprio così. Ma la scrittrice capace di lasciare pagine indimenticabili in 43 romanzi (di cui l’ultimo, Un’eterna meraviglia, misteriosamente scomparso, ritrovato e edito da Mondadori), 28 saggi, 242 racconti, 37 libri per l’infanzia e decine di sceneggiature per il teatro, il cinema, i musical, non trovò per tanto tempo il coraggio di raccontare a sé stessa e agli altri la sua tragedia personale. Ci sarebbe riuscita solo nel 1950, quindici anni dopo avere divorziato dal primo marito (del quale avrebbe tenuto il cognome) per sposare il suo primo editore, Richard J. Walsh, diciotto dopo il trionfo letterario, venticinque dopo aver adottato una bimba, Janice, alla quale avrebbe via via aggiunto altri sei figli adottivi. Per non dire delle migliaia di cui si occupò con la sua Fondazione. Prova provata di quanto avesse patito il trauma di quella prima creatura imperfetta.
In quel libro uscito giusto a metà del Novecento col titolo The Child Who Never Grew (la bambina che non crebbe mai o forse la bambina che smise di crescere: mai tradotto e mai pubblicato in Italia) ricordò quanto fosse stato difficile accettare la realtà: dentro i grandi occhi blu di Carol c’era un buio insondabile. Viveva allora a Nanchino: «La nostra casa era circondata da prati e giardini, un boschetto di bambù e grandi alberi (...) e fattorie e stagni di pesce. Era una casa piacevole e salutare per un bimbo. (Carol) era ancora bella come lo sarebbe oggi se dietro i suoi lineamenti ci fosse la luce della mente. Penso di essere stata l’ultima a percepire che qualcosa non andava. Era la mia prima figlia e non avevo paragoni da fare con gli altri».
Come poteva essersi annidato tanto dolore in una casa così serena? «La consapevolezza che qualcosa non andava cominciò ad affacciarsi verso i tre anni – ricostruisce Gabriella La Rovere, autrice del libro di racconti Mi dispiace, suo figlio è autistico (edizioni Abele) —, a differenza dei coetanei, la bambina non parlava e i suoi movimenti erano poco coordinati. Spaventata, Pearl si rifaceva alle storie di amici e vicini di casa i cui figli erano stati lenti nel parlare e camminare. All’epoca non si sapeva niente della fenilchetonuria da cui era affetta Carol...». Amici e vicini che non trovarono il coraggio di dire tutto: «Ancor oggi non riesco a capire la loro ritrosia. Perché per me la verità è tanto più cara di ogni menzogna confortante». Anzi, «migliore è un amico, più deve usare la verità. C’è un valore nella ferita rapida e necessaria. Così mia figlia aveva quasi quattro anni quando scoprii da sola che la sua mente aveva smesso di crescere».
Provò e riprovò per anni, Pearl Buck, ad aiutare la piccola a tirar fuori il meglio che potesse. Quella «scatoletta preziosa» che papa Francesco vede nascosta dentro ogni creatura disabile. E lo strazio del fallimento fu tale da isolarla e spingerla a scrivere a un’amica, Emma Edmunds White: «Non è del tutto una vergogna, ma qualcosa di privato e sacro, come deve essere il dolore. Sono dolente al tatto e non posso sopportare neanche il tocco di simpatia. Il silenzio è migliore e più facile per me. Suppongo che sia perché non sono rassegnata e mai lo sarò. Lo sopporto perché devo, ma non sono rassegnata. Perciò non parlare di lei. E risparmiami». Rientrata per sempre in America con le due bambine, finì per accettare il consiglio di medici, psicologi e amici. E affidò la figlia a un istituto specializzato, la Training School di Vineland, nel New Jersey. Ogni tanto era scossa dai sensi di colpa: «La lasciai tutta sola per tre anni e quello, ora lo so, è stato sbagliato sia per lei sia per me. Non era mai stata separata da me prima... Pagavo un’amica per andare a trovarla e lei mi faceva una relazione ogni mese ma non era la stessa cosa che andare io stessa. Ho giurato che sarei andata a trovarla almeno una volta l’anno». C’è chi dirà: forse poteva fare di più… Difficile giudicare, da fuori. Difficile. Carol sarebbe rimasta laggiù, con la sua faccia da bambina vecchia, fino alla morte, nel 1992. E lì è sepolta. La madre se n’era andata quasi vent’anni prima.