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 2020  maggio 22 Venerdì calendario

Il 2 giugno

Non sarà un bel 2 giugno, e non solo perché non c’è molto da festeggiare.
L’idea del centrodestra di scendere in piazza contro il governo, nel giorno della festa della Repubblica e con una pandemia in corso, non era una grande idea. Già il Paese è ripartito alla cieca, senza un piano di test e tamponi, senza tracciamento digitale, senza neppure un’adeguata scorta di mascherine (almeno a prezzo «calmierato»). Ci mancava solo un esperimento di massa; come se fosse possibile organizzare una grande manifestazione senza creare assembramenti, anche solo sui mezzi di trasporto. Ora pare che Salvini l’abbia derubricata a un «presidio di parlamentari». Vedremo.
Questo non significa che scarseggino ragioni per protestare contro il governo. La mole dei decreti appare inversamente proporzionale alla loro efficacia. Mancano sia la liquidità oggi, sia il grande progetto nazionale per far ripartire l’economia domani. Basta fare qualche telefonata agli imprenditori del Nord: tra i ritardi dello Stato nel garantire la cassa integrazione, e i ritardi delle banche locali nel far arrivare i finanziamenti, tutti sono alle prese con il drammatico problema di pagare stipendi e fornitori. Di piani per salvare l’occupazione non si vede l’ombra. Altro che Ricostruzione come dopo la guerra.
Eppure il 2 giugno è anche l’occasione per rivolgere uno sguardo alla nostra storia. A maggior ragione quest’anno, in cui giustamente i giardini del Quirinale resteranno chiusi e non sfileranno militari sui Fori.
Nella primavera del 1946, alla vigilia del referendum da cui nascerà la Repubblica italiana, la commissione economica del ministero per la Costituente convoca i capitani d’azienda, per ascoltare la loro visione dello sviluppo del Paese. Angelo Costa, presidente di Confindustria, considera le grandi unità produttive «innaturali» per l’Italia. Secondo Pasquale Gallo, commissario dell’Alfa Romeo, l’Italia è «destinata a diventare un Paese artigiano». Gaetano Marzotto pensa che «la nostra industria si sia troppo allargata». Intendiamoci: sono personalità che avranno un ruolo importante nel dopoguerra; ma, con l’Italia in macerie, non se la sentono di dichiararsi ottimisti. Poi davanti alla commissione si siede Vittorio Valletta (personaggio oggi del tutto dimenticato: Torino non ha una via che porti il suo nome). È appena uscito dall’epurazione – Giorgio Amendola, non un passante, aveva annunciato in fabbrica la sua condanna a morte – ed è tornato da pochi giorni alla guida della Fiat. Spiega che non intende limitarsi a «riparare il buco nel tetto e mettere i vetri nuovi alle finestre». Vuole portare a Mirafiori la tecnologia americana e far sì che ogni italiano possa comprare un’automobile; a cominciare dagli operai torinesi, «ottimi, magnifici e bravi».
Non si tratta di dare un’immagine edulcorata, di concordia nazionale, a un’epoca della nostra storia che fu segnata da duri contrasti; anche tra la Fiat e gli operai comunisti. Ma è quello spirito del tempo che va recuperato.
Oggi sarebbe già importante riparare il buco nel tetto e mettere i vetri alle finestre. Anche solo coprire le buche nelle strade della Capitale, recuperare le periferie, ristrutturare i fatiscenti edifici scolastici – la scuola è la grande desaparecida di questa fase – darebbe una bella spinta all’edilizia. Ma riparare il buco nel tetto non basta. Dobbiamo formare e mettere al lavoro i nostri giovani. Consentire a chi è andato all’estero di tornare, se lo desidera. Convogliare investimenti pubblici e privati nelle infrastrutture, nell’alta velocità al Sud – ma anche tra Brescia e Trieste –, nelle nuove tecnologie, nella fibra, nella messa in sicurezza del territorio. E anche nella sanità pubblica; perché la pandemia non è finita.
Siamo alla vigilia di una svolta in Europa. La Germania ha ormai compreso che si deve fare debito comune; e lo farà comprendere anche all’Austria e agli altri partner recalcitranti. Arriveranno molti soldi. Forse non subito, forse non abbastanza; ma arriveranno. Però il nostro Paese già prima di questa crisi non riusciva a spendere i fondi europei. I quali non finanziano l’assistenza, ma i progetti, i cantieri, il lavoro.
Se nel 1946 i nostri padri avessero deciso di spendere i dollari del Piano Marshall in redditi di cittadinanza, non avrebbero fatto dell’Italia una grande potenza industriale. Il piano di intervento dell’Europa può mettere in difficoltà un sovranismo gretto e senza respiro, e può dare invece ossigeno alla produzione; a patto di non pensare di spenderlo in sussidi, che creano solo dipendenza dalla politica.
Dipende dal governo; ma dipende anche da noi. Non è tabù distinguere e valorizzare le aziende capaci di mettere a frutto gli aiuti. Perché fa impressione vedere nelle nostre città, fianco a fianco nelle stesse strade, serrande abbassate con il cartello «in attesa dei soldi del governo» e serrande aperte di chi è tornato al lavoro.