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 2020  maggio 21 Giovedì calendario

Intervista a Pietro Ichino

A fine 2019 c’erano in Italia più di un milione di posti di lavoro scoperti per mancanza delle persone adatte a ricoprirli. Anche nella situazione attuale di crisi economica profonda, molte imprese che riaprono, o aprono per la prima volta, hanno fame di personale qualificato e specializzato che non trovano». Il grido di allarme è lanciato da Pietro Ichino, giuslavorista, considerato il padre del Jobs act, più volte parlamentare, nel 2007 tra i fondatori del Pd. Ichino, in occasione dei 50 anni dello Statuto dei lavoratori, è tornato nelle librerie con L’intelligenza del lavoro (Rizzoli editori), in cui ribalta il tavolo di convinzioni superate: nell’era dell’automazione e della globalizzazione siano i lavoratori a scegliersi l’impresa, dice Ichino. Ma è fondamentale avere politiche attive per il lavoro, «stupisce invece che il Governo sia capace soltanto di rilanciare in grande stile – stanziando molte decine di miliardi – le pur necessarie «politiche passive» del lavoro, il puro e semplice sostegno del reddito di chi perde il lavoro, e non senta la necessità di spendere neppure un euro per potenziare le politiche che attivano i percorsi giusti per mettere in comunicazione la domanda e l’offerta di lavoro».
Domanda. Professor Ichino, a 50 anni dallo Statuto dei lavoratori, cosa è rimasto di quella riforma?
Risposta. È rimasta intatta la parte dei diritti fondamentali della persona. In particolare quella del diritto alla riservatezza – il right to privacy degli anglosassoni – che con lo Statuto fa il suo esordio nel nostro Paese: è la prima volta in assoluto che esso viene menzionato nella legislazione italiana.
D. Però la norma sui controlli a distanza contenuta nell’articolo 4 è stata riscritta nel 2015 con il Jobs Act.
R. Sì, ma non è stato tolto nulla della norma originaria: il divieto di installare impianti per il controllo a distanza è rimasto inalterato. Si è solo precisato – ma era del tutto ovvio – che in questo divieto non rientrano i pc collegati alla rete aziendale, i cellulari aziendali, il gps sui veicoli: tutti strumenti che nel 1970 non esistevano. Mentre si è aggiunto un obbligo di informazione e trasparenza sull’uso che il datore di lavoro faccia dei dati ottenuti attraverso questi strumenti: una protezione aggiuntiva, dunque.
D. Oltre ai diritti fondamentali della persona, che cos’altro rimane intatto?
R. I diritti sindacali in azienda. E l’aspettativa per le cariche politiche elettive o sindacali. Tutte cose, però, non inventate dal legislatore: venivano riprese dalla contrattazione collettiva. Inoltre lo Statuto conteneva in embrione, nell’articolo 28, una ottima riforma del processo del lavoro, che sarebbe stata poi portata a compimento nel 1973. Avrebbe meritato di essere assunta come modello per una riforma generale del processo civile.
D. Invece è radicalmente cambiato il criterio di selezione dei sindacati legittimati a fruire di quei diritti. Perché l’articolo 19 non ha retto all’evoluzione del sistema?
R. Nel 1969 era già in atto un robusto processo di unificazione fra le tre confederazioni, che appariva destinato a concludersi felicemente di lì a poco: infatti già nel 1972 sarebbe nata la Federazione Cgil-Cisl-Uil, che rappresentava allora la quasi totalità del movimento sindacale italiano. Il legislatore, dunque, non si pose il problema della misurazione della rappresentatività dei singoli sindacati, perché la questione appariva del tutto inattuale.
D. Ma poi l’unificazione tra Cgil, Cisl e Uil non andò avanti.
R. A metà degli anni 80, quando il patto di San Valentino tra Cisl Uil e Governo Craxi sulla scala mobile sancì definitivamente il fallimento del processo di unificazione, il problema tornò di piena attualità. E si posero le premesse per la riscrittura referendaria dell’articolo 19, che sarebbe avvenuta poi nel 1995 con l’abrogazione della «presunzione di rappresentatività» in favore delle confederazioni sindacali maggiori.
D. Il referendum del 1995 risolse il problema?
R. L’esito di quel referendum, in contrasto paradossale con gli intendimenti di chi lo aveva promosso, ha instaurato in Italia un meccanismo di selezione delle associazioni legittimate a godere dei diritti di agibilità sindacale in azienda basato sulla capacità delle stesse di conquistarselo, diventando controparti contrattuali dell’imprenditore. La sentenza costituzionale n. 231 del 2013 ha poi un po’ temperato questa regola, e un accordo interconfederale dello stesso anno ha ridisciplinato incisivamente la materia; ma quell’accordo si applica soltanto ai sindacati firmatari. Sul piano legislativo la questione non può ancora dirsi risolta.
D. Veniamo alla questione più dibattuta: la disciplina dei licenziamenti.
R. Pochi sanno che la Cisl si era già opposta con forza all’emanazione della legge del 1966 sui licenziamenti individuali: l’accordo interconfederale del 1965 era nato proprio con l’intendimento di evitare l’intervento legislativo. Poi la legge n. 604/1966 sarebbe stata varata lo stesso, ma – questo fu il compromesso politico «costruito» da Gino Giugni – avrebbe ricalcato in tutto e per tutto quell’accordo. La Cisl si opponeva all’interventismo legislativo perché paventava che la disciplina del lavoro, sottratta all’accordo tra le parti sociali, potesse essere assoggettata alle oscillazioni degli equilibri politici. E paventava il rischio di forzature in Parlamento, come quella che in effetti si verificò, proprio sulla materia delicatissima dei licenziamenti.
D. Che cosa accadde in Parlamento sull’articolo 18?
R. Venne approvato a sorpresa un emendamento del Pci, che modificava radicalmente l’apparato sanzionatorio: mentre il testo del disegno di legge governativo elaborato dalla Commissione, designata dal ministro Brodolini e coordinata da Giugni, prevedeva il cumulo tra reintegrazione e risarcimento soltanto per i licenziamenti discriminatori, di rappresaglia, o comunque dettati da motivo illecito, l’emendamento estendeva questa sanzione anche al caso in cui il giudice ritenesse insufficiente il legittimo motivo economico o disciplinare. Era il tentativo di estendere al settore privato il regime di sostanziale job property caratteristico del settore pubblico; però, inevitabilmente, lo si estendeva soltanto a metà del settore privato, scaricando sulla parte restante tutta la flessibilità necessaria alle imprese.
D. Una ingessatura delle strutture produttive di dimensioni medio-grandi?
R. Direi soprattutto l’errore di pretendere di difendere i lavoratori dal mercato del lavoro, invece che nel mercato. Sul versante dei servizi nel mercato gli articoli 33 e 34 dello Statuto rafforzavano il monopolio statale del collocamento, cioè un ferrovecchio inservibile e indifendibile: si dovette attendere un quarto di secolo prima della sua abolizione.
D. Nel suo libro L’intelligenza del lavoro uscito in questi giorni lei prospetta l’idea di un mercato nel quale non sono solo gli imprenditori a scegliere i lavoratori, ma anche viceversa. Non le sembra un po’ troppo avveniristico?
R. Nel libro mostro come questo già avvenga largamente, non solo sul piano individuale, ma talvolta, nelle situazioni di crisi aziendale, anche sul piano collettivo. Come è accaduto nei casi di Alitalia nel 2008, Fiat nel 2010, e numerosi altri. E sostengo che questo potrebbe avvenire molto più diffusamente, anche nelle fasce professionali più basse, se si innervasse capillarmente il tessuto produttivo di servizi di formazione mirata agli sbocchi occupazionali esistenti e controllata nei suoi esiti, servizi di informazione e orientamento organizzati secondo i migliori modelli del centro e nord-Europa. Nel libro mi propongo di mostrare che l’economia italiana soffre, molto più che di un difetto di domanda di lavoro, di un difetto grave di servizi nel mercato del lavoro.
D. Non le sembra un po’ fuori tempo parlare di questo «mercato dell’intrapresa» nel pieno della crisi economica causata dall’epidemia Covid-19?
R. No. A fine 2019 c’erano in Italia più di un milione di posti di lavoro scoperti per mancanza delle persone adatte a ricoprirli. Anche nella situazione attuale di crisi economica profonda, molte imprese che riaprono, o aprono per la prima volta, hanno fame di personale qualificato e specializzato che non trovano. Proprio per uscire da questa crisi gravissima è indispensabile attivare i percorsi di formazione efficace, mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Stupisce che in questa situazione, invece, il Governo sia capace soltanto di rilanciare in grande stile – stanziando molte decine di miliardi – le pur necessarie «politiche passive» del lavoro, il puro e semplice sostegno del reddito di chi perde il lavoro, e non senta la necessità di spendere neppure un euro per potenziare le «politiche attive», quelle che attivano i percorsi giusti per mettere in comunicazione la domanda e l’offerta di lavoro.
D. Nel libro lei delinea anche un mestiere nuovo del sindacato nell’era dell’automazione e della globalizzazione.
R. Sostengo che il sindacato deve essere l’«intelligenza collettiva» dei lavoratori, che favorisce l’aumento della concorrenza sul versante della domanda di lavoro e consente ai lavoratori di valutare l’impresa migliore, sceglierla e negoziare con essa la scommessa sull’innovazione.