Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  maggio 21 Giovedì calendario

Vincenzo Nibali si prepara al ritiro. Intervista

Il Mondiale, un altro Giro d’Italia, il terzo. E, al termine di tutto, l’oro a Tokyo 2021. La carriera di Vincenzo Nibali è vicina al traguardo finale, ma il campione siciliano, a 35 anni, ha in mente una tripletta leggendaria. Che lo porterebbe tra i più grandi di ogni tempo.
Finire in modo spettacolare. Con un oro olimpico, a Tokyo 2021, sul durissimo percorso attorno al Monte Fuji, e dire ciao a tutti.
Sarebbe perfetto, no?
«Potrebbe essere, sì. Potrebbe essere il modo più bello di chiudere».
E magari, prima, correre il Giro d’Italia, il prossimo, a ottobre, e/o quello del 2021, con la maglia di campione del mondo. Sono le sole due cose che le restano da vincere, un Mondiale e un’Olimpiade.
«Anche questo sarebbe stupendo, ma forse stiamo correndo troppo.
Però sì. Se il Mondiale resta in Svizzera e a settembre (domenica 27), il percorso è perfetto per me. Se andrà a finire in Oman o in Qatar a novembre, tutto si complica, dipenderà da che tipo di corsa disegneranno. Tifo per Aigle-Martigny, tifo Svizzera ovviamente».
È anche il paese in cui vive. Com’è stato il lockdown a Lugano?
«Meno stringente che in Italia, in Spagna o in Francia. Potevamo uscire, lo proibivano solo agli ultra 65enni. I miei allenamenti in bici potevo farli, ho alternato strada e mountain bike, più divertente quest’ultima, e c’era molta più gente sui sentieri che in giro per le città.
Non sono mai entrato nei bar però. Al massimo mi fermavo nei market accanto ai distributori di benzina, mentre ero in sella, per prendere una crostatina e una bottiglietta d’acqua.
La gente non ti ferma qui e se ti trova per strada si fa da parte. C’è grande rispetto».
Il calore, quello manca, e forse mancherà alle gare, non appena si riprenderà.
«Ma ricominciare a porte chiuse non deve diventare un problema esistenziale, per me è importante che si riprenda. Si può correre lo stesso, sapendo che non sarà sempre così, che il ciclismo un giorno tornerà quello di sempre. Passiamo questi tre mesi di gare, riattiviamo il sistema, è importante, rischieremmo di non ripartire più. Le strade senza pubblico fanno impressione, ma sarebbero un male necessario, inevitabile».
Farebbero molta più impressione al Sud, da dove partirà il Giro, e nella sua Sicilia soprattutto.
«Speriamo che fino a ottobre tutto sia a posto. Tre anni fa a Messina è stato il delirio, è stato bellissimo».
Ha scelto la via italiana per il Mondiale: la Milano-Sanremo (8 agosto), la Tirreno-Adriatico (7-14 settembre). Non il Tour de France, che per la prima volta nella storia precede il Giro (29 agosto-20 settembre).
«Il Tour a fine agosto viene troppo presto, quando non avremo ancora la condizione necessaria. Se la forma cresce durante il Tour bene, oppure rischi di saltare di brutto o di saltare dopo. Il Giro è collocato bene, non così le Classiche del Nord, ma lo spazio è poco e non c’era molto margine di manovra. La Sanremo l’8 agosto è un’incognita: così lunga, così calda. Vedremo tante sorprese, è un anno particolare».
Nel frattempo lei si è dedicato ai rulli e alle gare virtuali. Non sarà per caso quello il futuro del ciclismo?
«Non voglio neppure pensarci. Il ciclismo è bello sulle strade. Il virtuale non fa per me».
Ha paura di contagiarsi alle gare, quando si ripartirà?
«La mia paura, e la condivido con molti miei colleghi, è quella di portare il virus a casa, dai nostri cari.
Noi atleti siamo supercontrollati, ci sentiamo super-forti e abbiamo staff intorno che pensano a tutto. La paura non possiamo scrollarcela così, schioccando le dita. Ma il ciclismo è lavoro, è così che viviamo.
In ufficio ci sarebbero gli stessi rischi. Noi lavoriamo all’aria aperta. E quando uno fa il corridore, il vento, le gare, i massaggi, i piccoli dettagli delle corse, le riunioni sui bus, le colazioni e le cene, le crisi e il rumore delle ruote sull’asfalto sono la vita».
È questa la sua vita, almeno da professionista, dal lontano 2005.
«Ho iniziato a correre però molto prima, negli anni di Pantani. Ero un ragazzino, avevo la sua sella con il Pirata che mordeva due spade. C’era la Panta-mania, tutti noi avevamo la maglia, gli occhiali, la bici, e tutti volevamo diventare scalatori come lui».
Qual è il primo Giro che ricorda?
«Quello del 1997, lo vinse Gotti, il Panta cadde in Costiera Amalfitana e si ritirò. Dolore immenso».
Dieci anni dopo lei correva il suo primo Giro d’Italia. Prima tappa e prima vittoria.
«Una cronosquadre, Caprera-La Maddalena, con la Liquigas. Un baccano infernale, un sogno vero. Ci imbarcammo subito su un traghetto, nemmeno il tempo di fare festa».
E tredici dopo siamo ancora qui,
a chiederle altre vittorie alla Nibali.
«Vuol dire essere riuscito a fare qualcosa di bello nella cosa che più amo fare».
Gianni Mura, su questo giornale, la chiamava “Vincenzo nostro”. E quando lei vinse il Tour scrisse: “Uno che, in piena luce, strizza gli occhi nella lunga faccia andalusa e sembra dubbioso: ma tutta questa gente è qui per me?”. È rimasto così?
«In fondo sì. E mi piace ricordare Gianni Mura per il suo sguardo, per la sua capacità di penetrarti nell’anima quando ti intervistava.
Cercava di capire, di scrutare, al di là delle parole. Ha scritto cose bellissime su di me e lo ringrazierò sempre, è stato bello essere cantato da una penna come la sua, sensibile e sferzante, quando serviva. In più di un’occasione un suo articolo mi ha spinto a raddoppiare le forze. Al Tour 2014 è stato fondamentale».
La sua ultima vittoria, a Val Thorens, al Tour 2019, è arrivata dopo una valanga di critiche.
«L’avevo promesso a Damiano Caruso: se non mi ritiro, una tappa la vinco. Il giorno prima ero andato in fuga con lui e poi mi ero staccato.
Non potevo lasciare il Tour senza lasciare un segno, alla mia maniera».
Giulio Ciccone, maglia gialla durante quel Tour, ora è suo compagno alla Trek-Segafredo, suo delfino e suo possibile erede.
«Ha tante qualità e qualche difetto da limare. È uno scalatore eccezionale, ha una grinta favolosa e l’età dalla sua. A volte è un po’ impulsivo, altre ci crede poco. Se vuole diventare uno da gare a tappe deve raggiungere un equilibrio fisico e mentale. Può farcela».
Felice di essere tornato in una squadra dall’anima almeno per metà italiana?
«Sì, molto. È comunque un ambiente molto internazionale, le riunioni sono in inglese. In italiano parlo solo con Cicco e con Paolo Slongo, il mio allenatore».
Chris Froome lascerà la Ineos durante la stagione?
«Non penso. L’anno prossimo è possibile».
È in scadenza, lui, come una marea di altri corridori, che hanno tre mesi per conquistarsi la riconferma e quindi il futuro. Come si vive una condizione del genere?
«O ti stronca o ti dà fortissime motivazioni. Sono fortunato a non trovarmi in quella situazione».
Andrete in ritiro in altura, prima del Giro?
«Sì, credo in Italia, ma non so ancora dove».
Forse sull’Etna, il suo vulcano.
«Certo, ma spero di no».
Perché no?
«Troppo vicino a casa, a Messina.
Troppi coinvolgimenti, troppe tentazioni. E per preparare un Giro devi essere impeccabile, niente sgarri. Alla mia età tutto si paga».
Oggi la Rai manderà in onda le repliche delle tappe di Risoul e Sant’Anna di Vinadio, quelle decisive per la sua vittoria al Giro 2016, l’apice forse della sua carriera, anche in popolarità, per come quella vittoria arrivò.
«Ricordo tutto, anche le critiche feroci, il caldo e la gente che c’era su al santuario. Ricordo il grande lavoro di Michele Scarponi, la scalata disperata verso Risoul, eravamo rimasti in tre o in quattro a crederci.
Anche allora la stampa mi ha dato una grande mano, in un certo senso.
Ho sentito esplodermi dentro tutto quello mi era rimasto, rabbia, fatica, dolore. Sono le vittorie più belle».
Quando una vittoria è più bella?
«Quando si vince contro tutto e contro tutti».
Vincevano così anche Bartali e Gimondi. A quota tre Giri ci sono anche loro da raggiungere.
«Due miti. Me l’avessero detto quando avevo la bici col sellino del Pirata, avrei detto: chi, io?».