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 2020  maggio 21 Giovedì calendario

Intervista ad Anne Holt

«Racconto le donne perché le conosco meglio degli uomini. E scrivo crime story per mostrare come le nostre società funzionano davvero: è politica, non letteratura. A maggior ragione in quest’epoca di nazionalismi scatenati». Anne Holt, norvegese, classe 1958, è stata, in ordine sparso, poliziotta, avvocato, ministro della Giustizia (nel 1996-97), titolare di una rubrica giornalistica sulla sua grande passione, il calcio. E ora è un’autrice noir da 10 milioni di copie, amatissima anche in Italia.

L’ultimo romanzo uscito da noi (per Einaudi Stile libero) si chiama La pista e inaugura una serie con una nuova protagonista: Selma Falck, ex atleta ed ex legale, passato torbido e vita a pezzi. Una bad woman che si ritrova a scavare nel marcio dello sport nazionale, lo sci di fondo: è l’inizio di un viaggio all’inferno, in un contesto dominato dall’avidità e dal razzismo populista. Due temi cruciali, come conferma lei, via telefono, da Oslo, dove vive con la moglie e la figlia.
Anne, questa conversazione avviene nel corso di una pandemia: oltre a provocare i danni che conosciamo bene, ci può anche insegnare qualcosa?
«Io credo che sia la nostra occasione per aprire finalmente gli occhi sul tipo di società globalizzata che abbiamo costruito. Con le sue ingiustizie, le sue fragilità strutturali. E i suoi rischi. Le probabilità che insorgesse una pandemia erano evidenti da anni, ma abbiamo fatto finta di non vedere. Siamo stati ciechi. E non solo di fronte al coronavirus: pensiamo all’ambiente. Da ora in poi forse non lo saremo più».
Da ex ministro della Giustizia, è preoccupata dalla cessione di diritti in cambio di sicurezza che caratterizza questo periodo?
«La Norvegia è stato il secondo paese europeo a sperimentare il lockdown, subito dopo l’Italia. Un meccanismo che ha interferito con quell’insieme di norme di convivenza che in tempi normali chiamiamo diritto. Vista la situazione, probabilmente non c’era altra scelta. Da ora in poi, però, le cose cambiano. E dipenderanno soprattutto dalla fiducia che i leader dei vari Stati saranno in grado di suscitare nei cittadini: un sentimento che non si può comprare o imporre».
E questa fiducia c’è?
«Dobbiamo sperare tutti di sì, anche se sono molto preoccupata. Così come spero che Big Pharma — al lavoro 24 ore su 24 sul Covid, spinta dagli enormi interessi finanziari in gioco — trovi una cura o un vaccino: spetterà poi ai governi assicurarsi che questi rimedi non finiscano solo nelle mani di pochi. Anche qui, dobbiamo scommettere su un ruolo forte dell’Europa, sulla collaborazione tra i vari Paesi».
A proposito di interessi finanziari: nei suoi romanzi spesso la soluzione è "follow the money". Ne "La pista", ad esempio, lei descrive un mondo sportivo avido e corrotto, oltre che razzista.
«Ho utilizzato lo sci di fondo con uno scopo politico: gettare un faro sui meccanismi alla base delle nostre società. Non m’interessa fare semplice letteratura, è la politica che mi spinge a scrivere. Fin da quando ho cominciato. Stavolta il mio scopo era mostrare il pericolo dei nazionalismi: la più grave minaccia attualmente presente in Europa, fortissima nei Paesi dell’Est ma presente anche qui in Norvegia e nella vostra Italia. Perfino la pandemia ci dimostra che solo la cooperazione internazionale ci può salvare: così si proteggono davvero i cittadini. Invece i nazionalisti, i populisti, affrontano ogni problema dicendo "io non vi voglio qui" o simili. Il mio libro parla di questo».
Perché ha scelto di farlo attraverso una nuova protagonista femminile?
«Scrivo spesso di donne perché, da donna, le conosco meglio degli uomini. Se oggi i personaggi femminili, anche e soprattutto nella crime fiction, sembrano così interessanti, è perché con l’emancipazione abbiamo conquistato più potere. Il che, sul piano letterario, significa maggiore complessità. La vera novità, per me, è che stavolta ho scelto una protagonista del tutto anti-eroica: profondamente egoista, pronta ad agire in modo immorale. Una sfida difficile, per un autore: riuscire a suscitare empatia per un essere umano poco piacevole».
Missione compiuta: la sua Selma è irresistibilmente hard boiled.
«Grazie! È merito soprattutto dell’età. Essere arrivata alla maturità infatti dona un grande vantaggio: la capacità di saper riconoscere, senza troppe illusioni, l’essenza della natura umana. Si diventa più saggi, dopo 27 anni di carriera letteraria. E questa maggiore consapevolezza si riflette nella scrittura: sento di riuscire a farlo meglio, adesso».
Nei suoi inizi da autrice ha compensato la mancanza di maturità artistica con il bagaglio da ex poliziotta?
«In effetti sì. Mi ha consentito da subito di dare una patina realistica alle mie storie. Un passato in prima linea da cui ho attinto tanto, non mi vergogno ad ammetterlo».
L’ha aiutata anche la grande tradizione del noir scandinavo?
«Quella delle origini, degli anni Sessanta e Settanta, certamente. Meno quella dell’ultimo decennio e dintorni, in cui assistiamo a un fiorire di intrighi familiari, thriller domestici, roba così. Sono tra le poche a essere rimasta fedele a un approccio politico».
E dunque a una forte vocazione all’affresco sociale.
«Le storie "nere" sono per definizione rappresentazioni credibili di un Paese, dei suoi cittadini. Sono una sorta di specchio che ci riflette tutti. Nel bene come nel male. Mostrano quali sono i valori di una determinata società, il livello etico dei comportamenti. In questo è sicuramente più efficace di qualsiasi altro genere letterario».
Pensa che prima o poi se ne accorgerà anche l’Accademia svedese? Verrà mai assegnato un Nobel noir?
«La mia risposta è: non accadrà. Le possibilità sono zero. L’Accademia è troppo snob. È uno scandalo che non abbia premiato Astrid Lindgren, la più grande scrittrice svedese di sempre, solo perché era una narratrice per ragazzi: figuriamoci se farà vincere noi autori crime!».