Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  maggio 21 Giovedì calendario

L’epidemia vista da Vasco. Intervista

Sono in 400mila, sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a ripartire. Parliamo di tutto il personale coinvolto nella produzione del cinema, del teatro, della danza, dei concerti. È fra i settori più colpiti e da sempre poco considerato. Sulla musica impatteranno moltissimo i grandi concerti estivi: non potremo godere di questa goia liberatoria e trascinante perché sono tutti rimandati all’anno prossimo. Per intervistare un artista bisognerebbe essere un po’ artisti – e non lo sono – lui non ama farsi intervistare e ho un dichiarato conflitto: è un amico. Vasco.
Tu dove eri quando è esploso tutto l’ambaradan?
«Ero a Los Angeles. Quando ho cominciato a capire che la faccenda diventava seria ho cercato di rientrare in Italia».
Erano i primi di marzo
«Esatto. Prima sembrava una cosa così, che riguardava solo la Cina. Poi sì, è arrivata anche da noi, ma non mi ero reso conto, non pensavo sinceramente alla pandemia. Poi ho cominciato a capire e volevo rientrare, ma ho iniziato a trovare problemi: è stata un’odissea: praticamente ogni volta che trovavo un volo poi veniva cancellato».
Alla fine sei rientrato con l’ultimo volo
«Ecco, il bello è questo, sono tornato con l’ultimo volo che partiva da Los Angeles: il giorno dopo gli Usa hanno chiuso tutti quelli con l’Europa».
Il lockdown a te non ha fatto né caldo né freddo. Non uscivi nemmeno prima...
«Sì, c’è da dire che la mia vita sociale non è molto intensa: già non esco, sono più o meno sempre in isolamento. Ma questa esperienza è stata molto forte anche per me... quando non potevo uscire neanche per una passeggiata mi sembrava una cosa pazzesca e poi non capivo il motivo: perché, dicevo, se vado da solo...».
Ti era venuta voglia di uscire adesso che era proibito, è così?
«Beh è chiaro, quello è un po’ il senso... quando una cosa non la puoi fare...».
Quando hai realizzato che la stagione saltava all’anno prossimo, con tutta la preparazione dei cinque megaconcerti, come l’hai presa?
«Ho iniziato a capire durante il lockdown. Ho cominciato a pensare: ma questa storia è difficile che possa risolversi in fretta. L’impossibilità di avere contatti fisici creava la condizione per cui non si potevano fare concerti nemmeno a giugno. A quel punto mi è crollato il mondo addosso: è da un anno che seguiamo questo progetto, ci avevamo già lavorato, già fatto tutti gli arrangiamenti, io ero già pronto per partire...»
Ma la cosa più difficile è stata dover ammazzare il tuo entusiasmo perché eri carico o dire a tutti i tuoi: signori si salta?
«Un po’ tutte e due. Per me fare i concerti è importante anche dal punto di vista psicologico. Io per fare i concerti mi devo tenere in forma, non mi devo lasciare andare: è un motivo per svegliarmi la mattina. Senza i concerti mi casca un po’ tutto. Pensavo si potessero rimandare a settembre, ma quando ho capito che anche lì sarebbe stato impossibile, ho preso la cosa di petto, mi sono detto “va bene saltiamo un anno e pensiamo a non ammalarci”».
È meglio tirare a campare che tirare le cuoia.
«Esatto».
Un grande artista può permettersi di saltare una stagione o anche due, ma per tutti quelli che campano di questo, per cui saltare anche solo una data vuol dire non sapere come pagare l’affitto! Solo attorno a un tuo concerto ruotano quasi 1800 persone...
«Infatti, di solito la gente non lo sa».
Sono invisibili, è come se il concerto fosse rappresentato solo da chi è sul palco...
«Invece c’è un mondo di persone che lavora. È stato il pensiero che mi è venuto: come fanno tutti questi che rimangono senza lavoro, che hanno difficoltà molto più grandi delle mie dal punto di vista economico. Io posso stare un anno fermo».
E quindi cosa hai fatto?
«Avevamo pensato di fare un fondo di solidarietà dove noi artisti avremmo, ognuno secondo le proprie sensibilità, depositato delle cifre. Avevo sentito anche Jovanotti, erano tutti d’accordo».
Anche Laura Pausini, no?
«Sì, anche lei, io la chiamo Pausella, le voglio molto bene. Lei ha avuto l’idea di fare una lettera aperta e di firmarla tutti e chiedere aiuto a Conte, perché agli inizi di marzo quei lavoratori non erano neanche considerati».
No, li hanno considerati settimana scorsa e hanno stanziato un miliardo di euro per musica, teatro, cinema. 
«Ecco, voglio pensare che sia stato anche grazie a noi artisti, dopo questa lettera che è stata firmata da tutti. Poi ci siamo detti: perché non costituire un fondo di sostegno per i lavoratori dello spettacolo? Ma il problema è a chi affidarlo: non c’era un’organizzazione, è una cosa abbastanza complicata».
Però c’è tra di voi la volontà di discuterne per dire: tiriamo tutti fuori un po’ di soldi?
«Sì, certo. Noi siamo disponibili, tutti gli artisti, penso. Intanto abbiamo pensato ognuno a proteggere i propri: io proteggo i miei collaboratori; penso alla mia squadra, una trentina di persone più o meno. Ognuno pensa ai propri, così siamo sicuri che quello che facciamo arriva. Poi c’è questo decreto... 600 euro saranno pochi, ma li riconosce anche ai lavoratori di quel tipo, è importante. In Italia c’è questo concetto che gli artisti sono considerati personaggi tra il circo e l’orchestrina: non sono considerati cultura».
Ma il pil prodotto dalla cultura, a partire dalle biglietterie – tre milioni di biglietti venduti solo per concerti – è un pilastro. È più trascurata dalla politica, ma non saprei se la gente la considera non importante, visto che l’arte può rendere più sopportabili le giornate peggiori...
«La gente si rende conto benissimo di cosa vuol dire non averla. Per chi frequenta concerti, non potersi trovare tutti ammassati... il bello è quello, potersi assembrare. Noi abbiamo il problema che se non possiamo assembrarci non ci divertiamo. Quando ci potremo riassembrare? Vorrei che gli scienziati si dessero da fare un po’ di più, che trovino questa cura...».
Mi pare si stiano dando tutti molto da fare e che ognuno dica la sua, per dirne poi un’altra il giorno dopo. Hai detto che parlare di «distanziamento sociale» è stata un’uscita infelice.
«Sì è una definizione sbagliata: non è distanziamento sociale ma fisico quello di cui noi abbiamo bisogno per non contagiarci. Usare la parola distanziamento sociale è sbagliato perché sottende già una disgregazione sociale che è anche possibile che succeda».
Il distanziamento sociale implica indirettamente una disgregazione sociale?
«Secondo me sì. Già nella scelta del termine c’è questa onda che sta arrivando di disgregamento sociale o di pericolo per la democrazia. Le parole sono importanti, molto importanti».
Le parole hanno sempre dei significati...
«E molto precisi, io vivo di parole, io scrivo parole».
L’Organizzazione Mondiale della Sanità qualche giorno fa ha detto che questa definizione non va bene: ti hanno ascoltato?
«Pensa eh, forse sì».
Nelle tue canzoni usi sempre parole molto semplici per raccontare storie molto complicate. Per noi che le ascoltiamo sembrano così naturali, ma ti vengono spontanee o c’è del lavoro?
«C’è dietro tutto un lavoro per cercare di sintetizzare al massimo. Uso meno parole possibili: la sintesi è stata sempre la mia cifra, ho iniziato così negli anni Ottanta. Ogni parola è distillata».
Come succede? Ti viene in mente una parola e dici: ah come è banale questa qua, ne devo trovare una più efficace...
«No, no è tutto un lavoro che avviene nel momento dell’ispirazione. Quando sono in quel mondo lì penso a delle sensazioni che voglio descrivere e non penso a descriverle usando parole o il linguaggio italiano ma lascio venire fuori le frasi, come se venissero fuori dall’inconscio».
Non è mica facile, sai come vorrei anche io far venire fuori le parole dall’inconscio.
«E infatti è quella la difficoltà di scrivere canzoni per me. Di essere in quella fase lì e di essere abbandonati all’inconscio, ma mantenere quel minimo di razionalità che mi permette di scriverle, di mettere giù una frase. A volte è una cretinata pazzesca ma quella giusta la riconosci».
Come si raggiunge lo stato di inconscio creativo?
«È una situazione molto particolare. Intanto devo essere solo, per forza. E anche molto eccitato. Eccitazione totale, sessuale anche. Poi devi scaricarla sullo strumento, è una sorta di trasporto molto simile alla sessualità...».
Quando componi hai orari regolari? Ti stacchi per pranzare?
«No, neanche per sogno. Ho bisogno di non avere orari, devo vivere in uno spazio e un luogo in cui non ci sono. Sono in un tempo sospeso, può durare tutta la notte fino al giorno dopo. E in quella fase gioco, aspetto che arrivino quelle sensazioni. Delle volte passo notti insonni senza che arrivi niente e mi sento anche molto stupido e molto inutile il giorno dopo».
Tranquillo, capita anche a noi. Siamo un po’ tutti convinti che i periodi travagliati siano di grande ispirazione per gli artisti... Mi chiedo se un periodo come questo stimoli la creatività.
«È sempre nelle sofferenze più grandi che alla fine si va a pescare quando si scrive. Solo che lo fai quando sono già passate: nel momento della sofferenza non fai niente, soffri e basta. Io soffro e basta, non è che scrivo una canzone. Magari dopo, quando è passato, ricordo quel momento e magari finisce in una canzone tutta l’intensità di quel momento lì. Però adesso sono troppo attonito, frastornato, allibito e incantato da questa situazione così pazzesca, da queste città vuote... una cosa allucinante, nelle scorse settimane sembrava di vivere in un film di fantascienza, di quelli che abbiamo visto ma mai avremmo pensato di vivere. Sono stato anche contento di essere arrivato a vederlo: ormai ho una veneranda età, avrei potuto essere già andato da tempo. Ho bruciato la candela da tutte le parti, in effetti sono qui per miracolo».
Si vede che sei di stoppa buona.
«Eh quello di sicuro. Penso di sopravvivere anche a questa cosa qua».
Perché sei contento di aver vissuto un momento come questo?
«Non è che sono contento, ma mi rendo conto che sono stato testimone di un evento catastrofico. Molti non lo hanno ancora realizzato, ma è come se fosse esplosa una bomba nucleare, una pandemia globale, mai avrei pensato di vederla». 
Quando sali sul palco e hai davanti 60 mila persone, a Modena 250mila, ti senti a casa o hai strizza?
«Io mi sento a casa solo lì. Quando sono sul palco e parte la musica, ecco, tutto quadra, è tutto logico, mi lascio prendere da ogni canzone».
Nessuna tensione, nessuna paura?
«Prima di salire un sacco di tensione, infatti prima bevevo molto, mi ubriacavo molto».
Salivi sul palco bevuto?
«Negli anni Ottanta bevevo prima, poi ho iniziato a fare concerti perfettamente lucido ed è il modo migliore per farli, perché ti rendi conto di tutto».
Le emozioni sono le stesse di vent’anni fa?
«In un certo senso sì, perché quando canto una canzone torno dentro il momento in cui l’ho scritta e la vivo. Per cui mi emoziono, mi incazzo sul serio. Provo sensazioni fantastiche e condividerle con tutta questa massa di persone che provano la stessa emozione nello stesso momento è di una potenza che ti lascia atterrito».
Ti identifichi con quello che sei? Vasco oggi assomiglia a quello che avrebbe voluto essere?
«Ah certo, Vasco Rossi, quello sul palco, quello delle canzoni sicuramente è quello che avrei voluto essere. Nella vita diciamo che invece è un po’ più complicato. Non dico che è una frana, perché ho costruito delle cose nel frattempo, grazie anche alla Laura, una famiglia. Ma per il resto mi trovo spaesato un po’ dappertutto. Ogni volta, in ogni posto che arrivo mi rendo conto che con me arriva anche Vasco Rossi: ognuno ha il suo e di solito non è mai quello che sono».

La cosa che ti sorprende è: perché mi vogliono tutti saltare addosso?
«Ma ho molto piacere quando le ragazze mi baciano, hanno cominciato a un certo punto, dopo dieci anni che scrivevo canzoni. Arrivavano e mi davano un bacio, facevo loro tenerezza».
Quanti figli hai?
«Ne ho tre, due sono figli biologici, nel senso che non sono cresciuti con me, sono arrivati grazie alla provvidenza. Poi Luca, molto desiderato».
C’è una cosa che non riesco a perdonarti: spiegami perché non ti piacciono i Beatles?
«Perché mi piacciono i Rolling Stones».
Sei un musicista: non puoi dirmi «se amo i Rolling Stones mi fanno schifo i Beatles»...
«Ma se ami i Rolling Stones ami un certo modo di fare musica; lo sberleffo, la provocazione, cose che non sono dei Beatles. Non dico che le loro canzoni siano brutte, ma hanno sempre avuto l’aspetto dei bravi ragazzi».
Beh bravi ragazzi, ne hanno fatte anche loro, sono andati anche in India dal santone...
«Pensa, hanno fatto anche quello ma non me ne sono accorto. Alla gente non è arrivato questo messaggio, è arrivato quello dei bravi ragazzi».
Mica serve essere cattivi per fare bella musica
«La musica è bella ma io non l’ho mai ascoltata perché ero prevenuto, amando il rock. Ancora oggi quando vedo Paul McCartney non mi emoziono. Mi piaceva di più John Lennon, mi sembrava uno dei Rolling Stones».
Eh, anche perché poi è morto giovane e male.
«Beh morto male, gli hanno sparato. È un punto di vista, ma ci sono modi di morire peggiori».
Morire a 40 anni è sempre un brutto modo.
«Beh chiaro, ma morire di colpo... ci farei la firma per una morte così eh».
Però non si può chiudere un’intervista così... 
Pausa. Poi inizia a cantare, quasi un sussurro. «Vivere, è passato tanto tempo, vivere, è un ricordo senza tempo, vivere, senza perdersi d’animo mai e combattere, lottare contro tutto contro. E poi: vivere e sperare di stare meglio, vivere e non essere mai contento... vivere». E sorridere.