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 2020  maggio 21 Giovedì calendario

Un ricordo di Ungaretti a 50 anni dalla morte

Uno e imprendibile nei ritratti dei suoi molti amici pittori. Ha il tratto lieve, quasi arabescato voluto da Gentilini. È la massa compatta e mossa del suo viso, occhiali cerchiati e un mobile cappello fissato da Scipione. È grifagno e d’occhio acuto come lo vedono Rosai, Tamburi, Maccari. Diventa enigmatico come un geroglifico di Chastel, oppure si trasforma in un vero totem in Clerici, gli occhi che sembrano tagliati dal rasoio. Mezzo secolo fa, il primo giugno 1970, moriva Giuseppe Ungaretti. Aveva ottantadue anni ed era quel gran bel vecchio che appare nelle ultime fotografie, gli occhi felini e fessurati, il parlare a scatti per improvvise illuminazioni, quel recitare versi a gridi soffocati e poi distesi e dilatati, come per aderire con la voce all’urgenza incrociata delle clausole metriche e del sentimento in esse depositato. Quella voce, poi, era anche diventata una simpatica abitudine televisiva. Proprio pochi giorni prima della morte, capitò di vederlo in un festival dì canzonette, mentre col candore di sempre (e la barba lo faceva apparire ancora più «antico») sorrideva alla Zanicchi che gli dedicava guardandolo negli occhi «Ma la storia di mio padre è una storia senza tempo».

LA COMUNICAZIONE
Affabile, sembrava nato per quel tipo di comunicazione, di cui intuiva il ritmo e le pause mentre parlava di Jacopone e gesticolando spiegava la poesia, il mistero, il tempo. Era «il befano che su babbucce di pelle di topo siamo costretti a vedere e a sentire, troppo spesso», dirà di lui il solitario e perfido Lucio Piccolo, respinto da quella naturalezza molto istrionica con cui il vecchio Unga, con gli occhi piccoli e gli strappi strategici della voce, recitava per la platea televisiva degli anni del boom la parte del poeta, singolare e carismatica figura massmediatica. Di quel nuovo mezzo, il poeta rivelava un’insolita competenza quando, in una lettera a Leone Piccioni, a proposito dell’Approdo, insisteva sulla necessità che la trasmissione sviluppasse un suo «ritmo». E con amarezza denunziava le incongruenze amministrative che valutano «milioni» le barzellette di Dario Fo sul piccolo schermo e cinquantamila lire l’apparizione di un poeta come lui, il massimo vivente, il cui nome si poteva accostare solo a Claudel e Pound.

LE RIVENDICAZIONI
Ungaretti raccontava e si raccontava. Commentava a volo il Nobel a Quasimodo, la nomina a senatore a vita di Montale, ridimensionava il Gattopardo mentre si lamentava per un’onorificenza perduta, preparava la dichiarazione dei redditi, organizzava un viaggio come l’ultimo prima di morire, nell’università californiana tra reading, discorsi sul libero amore e un po’ di marijuana. Alle lettere che gli capitava di scrivere all’amico Leone, dava il «ritmo» della conversazione continuamente riattivata. Per dire ogni volta, tra sfoghi, rivendicazioni del proprio merito, giudizi feroci e spesso fulminanti (come quelli su Fontana, Picasso, Landolfi) che «la poesia non occorre capirla, è segreto comunicato a segreto». Che «del Senato me ne frego». Che «l’allegria, anche quando non è ironica, è il mio elemento».
Ecco L’allegria, la sua allegria. Ungaretti è il poeta che più d’ogni altro si può considerare l’iniziatore della nostra lirica moderna, del nostro Novecento, lo apre la «meraviglia» di una parola tornata a fiorire «scavata come un abisso». La sua grande conquista consiste essenzialmente nell’aver risillabato lentamente la parola di fronte all’enormità del silenzio. L’Allegria è davvero uno dei grandi libri del secolo scorso. La sua novità, rappresentata da quei versicoli scarni e telegrafici degli anni di guerra, brucia ogni deposito e ogni prestito in una dizione che recupera sul campo sintattico e semantico l’«innocenza e la memoria» e si sa come innocenza e memoria siano temi ricorrenti nella poetica ungarettiana. L’uomo-pietra, levigato dall’acqua dell’Isonzo, la straziata immobilità della sua condizione restano un tema incancellabile nella nostra memoria poetica. La rottura analogica porta alla riscoperta del «nome come fatto religioso», a una sintassi in cui il nuovo retorico è istantaneamente nuovo esistenziale; il linguaggio è davvero una realtà in sé assoluta, «un nulla d’inesauribile segreto» al cui interno, nel suo elementare farsi e disfarsi, si specchia tutto il modo carsico ungarettiano.

IL TEMPO ORRIBILE
A sfogliare il Meridiano che raccoglie tutte le sue poesie, si constata che esso comprende neppure cinquecento pagine di versi. Ungaretti ha inciso moltissimo scrivendo in fondo poco. Sei libri, ognuno dei quali perfettamente (come ha ben scritto Maurizio Cucchi) legato a un disegno interno, o a un’esperienza precisa di vita, come nelle indimenticabili, emozionanti pagine del Dolore, dove la potente elementarità dell’opera d’esordio si riassapora nei termini di una limpida forza diretta capace di comunicare il senso della perdita e della morte. Non per niente Ungaretti stesso diceva che quello era il suo libro più amato, «il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola». Come nel suo ultimo «taccuino» dove il «vecchissimo ossesso», che legge il viaggio di Ulisse in tv e commenta con Tito Stagno lo sbarco sulla luna, scrive: «Tutto si accumula sullo stesso piano, e tutto questo presente accumulato forma una specie di buio dove non si distinguono neppure i connotati del proprio tempo perché il tempo va avanti con una velocità che non è umana. Potrebbe essere questa l’apocalisse». L’apocalisse ovvero l’irrevocabile indistinzione tra verità e finzione, tra esperienza vissuta e sua rappresentazione. Ungaretti sembra preannunziare la scena culturale e antropologica del post-moderno.