«Sono un casalingo, stare chiuso non mi è pesato tantissimo. Ho fatto un sacco di cose, ho scritto, letto, ho lavorato. In questo sono un privilegiato, il lockdown alla fine è stato ispiratore: avevo idee che mi ronzavano in testa e l’obbligo di doverci pensare è servito». Claudio Amendola ha un modo suo di raccontare le cose, una filosofia molto romana, per cui tutto è relativo. Torna in tv da domani su Rai 1 con la replica di Nero a metà di Marco Pontecorvo, serie di successo del 2018 in cui interpreta il commissario Guerrieri, uomo con qualche ombra. «Mi fa sempre piacere fare compagnia al pubblico, la storia è piaciuta, racconta la Roma multietnica. A settembre andrà in onda la seconda stagione e stanno scrivendo la terza».
Amendola, va bene che ha un buon carattere, ma questi mesi complicati davvero non hanno lasciato il segno?
«Chiariamo. Non è stato facile per chi fa il mio mestiere, il 4 maggio sarei dovuto partire col film da regista, c’era un grande fermento prima della pandemia. Poi è diventato tutto difficile, e tutto si è fermato. Siamo stati colpiti, specie chi fa un lavoro precario. Però — fermo restando i morti, i numeri spaventosi — l’abbiamo presa così male perché siamo abituati troppo bene».
Che vuol dire?
«Non si può dichiarare: “Questa è una guerra”. Oh, ma la guerra ha fatto cinque milioni di morti, non potevi uscire di casa per le bombe. Questa pandemia entrerà nei libri di storia, è vero, sono stati tre mesi difficilissimi per il paese. Due settimane di unità, di “volemose bene” per poi riscivolare nella solita roba».
Non crede che ne usciremo migliori?
«Vuol dire che saremo tutti più buoni? Ma de che? Sei più buono se lo sei, non lo diventi. La verità è che è stata una cosa grave e non eravamo preparati perché abbiamo sputtanato la sanità e i rapporti sociali. Quando eravamo piccoli ricordo che a casa veniva il dottore. Oggi il medico sta in ospedale, è irraggiungibile, se sei fortunato ci parli al telefono: e certo non per colpa sua. Sa qual è la verità?».
Dica.
«Siamo un paese povero, esiste il risparmio privato ma lo Stato non ha i soldi come non aveva i reagenti per i tamponi. Poi facciamo i paragoni con la Germania... Non abbiamo avuto nulla. È facilissimo attaccare questo governo su qualunque cosa e riconoscergli tutti gli errori commessi ma non si fa mai una vera analisi della situazione del paese. Se c’è una persona a cui voglio bene è il premier Conte, ha fatto quello che gli si chiedeva al primo decreto, dare i soldi agli italiani. Adesso tutti a dire: non c’è niente per le imprese e per la ripartenza. Ci vuole buon senso, qualunque cosa sarebbe stata sbagliata. Sono stufo di questo gioco al rimpiattino della politica».
Ha dovuto rimandare il film da regista: quando lo girerà?
«Tra un anno, è una black comedy sulla morte, si intitola Cassamortari. In questo momento non ce la sentivamo».
Effettivamente.
«Vogliamo capire quando si potrà tornare a scherzare sulla morte. L’ironia e il grottesco ci salvano la vita, sono fondamentali. Per ora siamo fermi: vediamo in che modo ripartiremo. Intanto c’è questa novità di Nero a metà in replica».
Quando è andata in onda ha avuto successo, il suo commissario è un tipo particolare non trova?
«Lo hanno scritto pensando a me, imperfetto con una grande umanità, che poi è la particolarità della fiction di Rai 1. C’è un bel cast, Miguel Gobbo Diaz è adorabile, come Rosa Diletta Rossi che interpreta mia figlia. Si è formato un bel gruppo e si vedrà anche nella seconda stagione».
Ma tra buoni e cattivi chi preferisce?
«I cattivi mi sono sempre piaciuti di più. Poi dipende. Mi piace farli in una storia in cui siano giustificati, dove poter trovare una motivazione. L’unica domanda che mi faccio è: “Ma a questo da piccolo che gli è successo?”. I personaggi funzionano quando sono ben scritti e il contorno ti aiuta, penso a Samurai in Suburra, Stefano Sollima amava molto quel personaggio, mi sentivo molto curato».
Ha un rapporto speciale col pubblico, si è chiesto perché?
«Perché siamo cresciuti insieme. Con gli sceneggiati girati con papà, da Storia di amore e di amicizia a Pronto soccorso, il fatto che lavorassi con mio padre mi ha legato alle famiglie italiane. Film come Vacanze di Natale e Amarsi un po’ coi Vanzina sono stati grandi successi popolari, e hanno davvero raccontato l’Italia».
Poi “I Cesaroni”, diventata una serie cult.
«Una scelta su cui molti hanno storto il naso, perché c’è sempre qualcuno che critica. Ma ho preso tutta una fascia di pubblico che non avevo. Sono arrivati i film per bambini, le pubblicità e la conduzione: ho fatto tutto. Sono onnivoro. E ho avuto modo di allargare la platea».
Aveva detto che avrebbe fatto solo il regista, ma continua a fare l’attore: ha cambiato idea?
«Ho capito quanto sia difficile mettere su un film da regista: non mi posso permettere di lavorare ogni quattro anni. Il nostro è un mestiere strano, ho 57 anni, lavoro da 40 e la pensione è ancora lontana».